Fermenti culturali.
Intervista ad Alessandro Rossetto
Questa settimana il consueto appuntamento di "Fermenti culturali" è con Alessandro Rossetto, l'autore di Chiusura, il documentario girato a Padova in un negozio di parrucchiera della zona Guizza.
Nato a Padova nel 1963, ha studiato antropologia a Bologna e cinema documentario al Centre de Recherche Cinématographique dell'Università di Nanterre a Parigi. Ora vive a Roma ed è considerato uno dei maggiori documentaristi europei della giovane generazione.
Alessandro Rossetto è autore cinematografico, produttore e direttore della fotografia, operatore alla macchina.
Nel 1997 ha diretto Il fuoco di Napoli, che è stato selezionato in numerosi festival tra cui Vision du Réel a Nylon, in Svizzera e "Messaggio per l'uomo" a San Pietroburgo.
Il suo secondo documentario lungometraggio, Bibione Bye Bye One, mostrato in anteprima al Cinéma du Réel del 1999, è un'opera molto personale, ambientata in una stazione balneare del Nord-Est, che viene vista come lo specchio della condizione umana alla fine del XX° secolo.
Chiusura è del 2001.
Il suo cinema racconta una quotidianità mitica e fuori dal tempo, con uno sguardo delicato ed emozionante, sempre alla ricerca della poesia della vita.
Ho incontrato Alessandro Rossetto a Torino, grazie a un appassionante seminario organizzato da Documè, associazione che sta costruendo un circuito indipendente di sale in tutta Italia per promuovere il cinema documentario.
Le risposte relative alla realizzazione di Bibione Bye Bye One e di Chiusura sono state rielaborate sulla base di quel seminario. Le altre risposte sono state raccolte con un'intervista fatta ad Alessandro Rossetto durante una pausa con pasticcini in quella stessa occasione.
Come è nata la tua passione per il cinema documentario?
Devo qualcosa della mia passione cinematografica a mio nonno, che era un buon fotografo. Ero un cinefilo fin dal liceo, poi ho studiato antropologia e alla scoperta dell'antropologia visuale, cioè l"utilizzo degli audiovisivi per la ricerca antropologica, si è unita la scoperta del cinema documentario, sia quello classico che quello contemporaneo, e anche del cinema sperimentale. Gli studi di cinema documentario, e in particolare la permanenza a Parigi e la frequentazione di festival internazionali " l"Italia è deficitaria in questo senso " mi hanno portato alla realizzazione di film documentari, con una concezione del documentario come film.
Diciamo che mi considero un regista tout court: mi concentro sul cinema documentario senza pensare che il cinema documentario sia una cosa chiusa, tanto è vero che il mio prossimo progetto sarà probabilmente un film cosiddetto di finzione.
Com"è la situazione del cinema documentario in Italia?
Í una situazione molto difficile, perché c"è stata una perdita dell'idea del cinema documentario, che probabilmente è da individuare nella seconda metà degli anni"70. Il telegiornalismo ha tagliato le gambe alla produzione e abbiamo avuto fenomeni come il terrorismo, che da una parte hanno un po" censurato il lavoro sulla realtà con uno sguardo non ideologico, e dall'altra hanno criminalizzato la ricerca poetica, sostituendola con una prospettiva di impegno politico.
Questa base, che si è negativamente solidificata, unita ad una crisi generale nel cinema d"autore italiano, ha fatto sì che quando, alla metà degli anni"80, si è determinata una nuova onda di cinema documentario in Europa, l"Italia è rimasta marginale.
Non sono cresciuti produttori con una cultura vasta di cinema documentario e in ambito televisivo non si sono create strutture di valutazione e di produzione di progetti di film documentario. Il cinema documentario veniva considerato una palestra per passare al cinema di finzione. Cosa che vale solo in Italia, perché ci sono autori a livello europeo ed extraeuropeo che hanno fatto decine di documentari senza passare alla finzione.
E poi questa contrapposizione tra documentario e finzione mi sembra stupida. Ci sono autori che hanno fatto documentari che sono veri e propri film, senza sentire l"esigenza di affrancarsi dal documentario per salire al gradino superiore della finzione.
In Italia forse solo negli ultimi anni c"è stata un"ascesa nello statuto del cinema documentario, per cui viene considerato un genere nobile. Io credo che abbia più possibilità espressive, per la libertà di ricerca, sia nel trattamento dei temi che nella commistione di forme.
Qual è la differenza tra la tua concezione di documentario e il documentario televisivo?
Nella tradizione televisiva il cosiddetto film documentario, che rimane il meglio che la televisione può offrire, soprattutto in ambito italiano è stato sostituito da un"idea di reportage giornalistico che secondo me nulla ha a che fare con il cinema documentario.
Il cinema documentario prevede un"autorialità , quindi uno sguardo sulla realtà da parte di un autore, un tipo di ricerca e di espressione libera che non ha a che fare con i fatti di cronaca o con avvenimenti o personaggi nell'immediato ma che ha come possibile soggetto qualsiasi cosa.
Diciamo che Report è il meglio dell'inchiesta giornalistica televisiva, ma non lo confonderei per niente con il cinema documentario, quindi con una tradizione che parte da Vertov e i russi ai primi del "900 e continua negli anni"60 negli Stati Uniti, in Francia, in Inghilterra, in Germania e in parte anche in Italia, come "cinema della realtà ".
E cosa dici di Michael Moore?
In questo senso è difficile giudicare il lavoro di Moore. Roger and me è un capolavoro, Bowling for Columbine è un grande film; dal punto di vista formale mi viene da dire che Fahrenheit 9/11 non è allo stesso livello, però mi piace. Io lo considero cinema documentario, perché va in sala. Un reportage di Report non va in sala.
Quali sono i tuoi maestri, i registi che senti più vicini a te?
Oddio... posso citare molti nomi. Mi piacciono Vertov, Ivens, Kramer e Depardon, ho studiato con Jean Rouch. Pensando ai classici, mi piace Cassavetes, ma anche Fellini, Antonioni, Ejzenstejn, Tarkovskij. Adoro Godard, mi piace anche Truffaut, Bergman.
Nel contemporaneo potrei citare molti nomi sconosciuti di autori di film documentari dei quali apprezzo moltissimo il lavoro e che considero dei maestri per me. Ma sono nomi davvero molto sconosciuti in Italia, dove la circolazione dei film documentari è penalizzata.
Come è nata l"idea di Bibione Bye Bye One?
Bibione è frutto di una lunghissima gestazione ed è un film per me ancora molto misterioso.
Í stato girato nell'arco di tre estati, ma l"idea era nata molto tempo prima, quando da ragazzo andavo a trovare la mia fidanzata che lavorava come stagionale a Bibione. Dovevo aspettare che finisse il turno, quindi passavo molto tempo da solo. Al mare non ci andavo, non mi piaceva, quindi cominciai a girare per Bibione con la mia macchina fotografica.
Questo mi ha permesso di osservare i luoghi e le situazioni con uno sguardo molto personale, aperto all'imprevisto: e il racconto di Bibione, dieci anni dopo, nasce proprio da una "deriva": non ha protagonisti, non ha storia, non ha unità di luogo, tempo e spazio, ma è costituito di molti piccoli pilastri tematici, su cui ho lavorato prima di cominciare il film.
Nel tempo, in modo sconnesso, ho pensato a delle situazioni specifiche e a chi poteva rappresentarle. Per esempio, la storia del luogo. Bibione è un posto senza storia. Prima del turismo c"era solo campagna, una sorta di civiltà di cacciatori-raccoglitori: per questo motivo ho deciso di cominciare dal pescatore, che rappresenta la mia idea della storia del luogo. Mi riferivo al ricordo di un vecchio pescatore, che avevo fotografato anni prima, ma che nel frattempo era morto. Eravamo in tre su una Renault 4 malridotta, piuttosto disillusi dopo una serie di ricerche insoddisfacenti, fermi davanti all'ingresso delle terme di Bibione. Quelli delle terme ci hanno chiesto se ci interessava andare a vedere dove prendevano l"acqua. Perché no? Quando siamo arrivati sul posto abbiamo incontrato il pescatore di rane che compare all'inizio del film: la fortuna di chi ha fede.
Quindi ci sono delle scelte iniziali di ricerca molto precise che si accompagnano alla libertà dell'esecuzione, all'improvvisazione. Dall'attesa e dall'apertura personale possono nascere le sorprese, gli incontri imprevisti: possono accadere delle cose.
Altri temi sono quello della storia dell'insediamento, la nascita della realtà contemporanea, che è rappresentato da Mafalda, ex-maestra della scuola elementare di Bibione; poi il luna park, la vita notturna, la processione sul mare, la tromba d"aria, la gita in battello, il tradimento, il legame con l"America... Vicino a Bibione c"è la base di Aviano, c"è un americanità diffusa, che è evidenziata anche dal titolo del film. I ragazzi dell'entroterra dicevano: ""ndemo a Bye-bye-one".
Nel film c"è una critica a un certo modo di stare al mondo, dovuto all'ignoranza e a una certa cultura del denaro tipica del Nord-Est. Ma la critica è fatta sempre con tenerezza: prendere in giro le persone non paga, è molto più interessante l"ironia e la poesia.
Come mai la scelta del bianco e nero in Bibione?
Anche dieci anni prima avevo fatto le fotografie in bianco e nero. C"è senza dubbio una componente di citazione del documentario russo e americano, una certa ricerca del glam, ma non solo.
Come ha detto De Seta,
Nel documentario lo sguardo è collegato alla realtà , ma con un punto di vista molto personale: se tu giri in bianco e nero dici proprio che quella non è la realtà : denunci subito che c"è un intervento. Í uno sguardo diverso, che astrae. Inoltre sapevo che avrei girato in condizioni difficili, senza poter controllare bene la luce.
E poi Bibione a colori sarebbe stato un film duro, cattivo anche rispetto ai personaggi: sarebbero diventati reali e non si sarebbero salvati.
Come ti avvicini alle persone che diventano personaggi dei tuoi film? Qual è la differenza tra la ricerca di un rapporto di fiducia e la tendenza allo scontro, alla provocazione?
In primis è necessario creare un rapporto di fiducia, per raggiungere un"intimità che permetta di filmare bene la realtà .
Considero che mettersi sul piano dello scontro con il protagonista del film è qualcosa che si può fare in situazioni particolari, per ottenere certi risultati ad hoc, ma in generale si deve creare un rapporto di empatia.
La fiducia si ottiene con il tempo, anche passando intere giornate a non fare niente, senza cercare un risultato. In questo modo ti dimentichi per quale motivo sei lì, e chi è lì si dimentica che hai la cinepresa, abbassa le difese e si rivolge a te con intimità .
Í l"effetto fly on the wall, della mosca che guarda senza essere guardata. Naturalmente ci sono anche dei momenti faticosi, in cui ti chiedono di te, delle tue idee. Ma si crea una relazione in cui il cinema non c"entra più e ti senti di dare davvero un pezzo della tua vita.
Mi parli di Chiusura?
Í un classico, nell'ambito del cinema documentario, occuparsi di attività che iniziano o che finiscono, di successi o di fallimenti.
La protagonista di Chiusura è mia madre, che ho accompagnato nel delicato percorso di chiusura del suo negozio di parrucchiera.
Io conoscevo profondamente il negozio e il tipo di umanità connaturata ai muri del luogo: grazie al film ho recuperato la conoscenza di persone che mi hanno visto da piccolo e si è ricreato un rapporto di confidenza con le signore che venivano al negozio, che erano a loro agio e non si preoccupavano affatto di come comparivano. Eravamo quattro uomini giovani in mezzo a un gruppo di anziane signore, e i doppi sensi e gli scherzi con noi della troupe erano il pane quotidiano.
Mia madre era molto sincera nel vivere la situazione: era contenta di avermi lì, anche se non capiva bene e ogni tanto mi chiedeva: "ma guadagni tu?".
Anche se lo sguardo non è coinvolto, anzi è piuttosto freddo, il film nasce da ricordi molto intimi e da un passato di appartenenza che mi ha permesso di anticipare il reale. Nella presentazione del progetto del film ho parlato di un luogo dove si parlava di politica internazionale, di sesso, di bellezza sfiorita, di malattia, e ho anticipato l"idea della squadra di calcio femminile come gruppo di giovani donne che facesse da contrappunto al gruppo di anziane del negozio. Infatti Chiusura parla prima di tutto della chiusura di un"attività lavorativa, ma anche di molto altro, perchè il film si prende il rischio di cercare un legame sotterraneo tra tre situazioni: la parrucchiera, il circo e la squadra di calcio.
Il collegamento è azzardato, è un collegamento poetico, intimo, non del tutto equilibrato. All"inizio l"idea della squadra femminile di calcio non mi era chiara e il circo non era previsto: al circo mi ha portato Lisa, la calciatrice, con cui mi sono fatto le mezze giornate in giro in macchina, ascoltando Adriano Celentano. Anche il circo chiude, ma si sposta e va da un"altra parte.
Dunque il negozio chiude, la squadra di calcio va a scatafascio, è ultima in classifica, e il circo chiude ma probabilmente riaprirà . Il circo è un classico: dà leggerezza, è la porta aperta alla novità e porta elementi che hanno a che fare con il cinema e con la visione.
Sei nato a Padova, torni a Padova a girare Chiusura. Qual è il tuo rapporto con la città ?
Chiusura è da una parte il racconto di un accadimento molto specifico, dall'altra uno sguardo su alcune situazioni che conoscevo e un punto di vista molto personale su degli elementi di umanità .
Probabilmente si percepisce l"atmosfera di Nord-Est, ma Chiusura non ha a che fare direttamente con Padova.
Ho vissuto a Padova negli anni "70. Ho vissuto la periferia, la perdita di tempo, molto alcol e una durezza che nel film non emerge.
Avevo un forte impegno politico e volevo fare l"istituto tecnico più politicizzato di Padova, ma poi è arrivato mio nonno e ha detto: "fai il liceo classico". A casa mia non c"era un libro, ma la mia generazione è quella che è stata spinta fuori da situazioni familiari di questo tipo.
Lasciai Padova agli inizi degli anni"80, quando c"era un vero e proprio stato di polizia: sembrava di essere a Santiago del Cile. Quello che hanno chiamato riflusso a Padova aveva preso una forma piuttosto violenta: era veramente difficile vivere a Padova allora.
Io l"ho lasciata un po" per questo e anche perché gli studi mi portavano altrove. Poi ho recuperato bene il rapporto, ma questo non c"entra molto con il fatto che io abbia fatto Chiusura.
Quali consigli daresti a chi vuole fare film documentari in Italia?
Per fare documentari in Italia... direi che bisogna andare all'estero.
C"è una cultura dell'insegnamento del cinema documentario, in molte città europee, che in Italia ancora non c"è.
C"è una possibilità molto più ampia di formarsi attraverso la visione come spettatori.
E ci sono possibilità produttive più significative, anche se sempre da conquistare, in Francia, Germania, Svizzera e Inghilterra.
Il cinema è anche una questione molto autodidattica, per cui mi sento di consigliare di provare comunque a filmare con le piccole videocamere digitali.
Questo modo dilettantistico di approcciare il documentario, con una piccola videocamera, rischia però di far dimenticare che il cinema ha un linguaggio, anche se si chiama cinema documentario, e che è necessaria una formazione dello sguardo.
Laura Lazzarin