Intervista a Elena Borgatti
Questa settimana parliamo di danza con Elena Borgatti, che dirige una compagnia davvero particolare: la Simple Company. Una compagnia che studia la musica, reinventa gli spazi, valorizza le persone anzichè l'atletismo.
Chi è
Elena Borgatti ha fondato e dirige la compagnia di danza contemporanea The Simple Company del Concentus Musicus Patavinus (Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Padova - Dipartimento di Storia della Musica e delle Arti Visive) per la quale ha creato più di cinquanta coreografie che hanno ricevuto diversi riconoscimenti in Italia e all'estero. Í coautrice del testo per corsi universitari di Ingegneria Esercizi elementari di controlli automatici (PÍ tron editore, 2003 - prima edizione 1998). Un suo racconto appare nell'antologia Effetto Globale (Il Poligrafo, 2003) curata da Giulio Mozzi. Í di prossima pubblicazione sugli Atti dell'Accademia Galileiana di Scienze, Lettere ed Arti un saggio di Elena Borgatti sulla commistione dei mezzi espressivi nei primi decenni del Novecento francese. Í autrice del libro La diaria del danzatore, pubblicato da L'Impronta Editrice (Mori, Trento, luglio 2004) nella collana "Nuovo Rinascimento" diretta da Massimo Sannelli.
Con la Simple Company svolge attività di ricerca nel settore coreico e allo stesso tempo si occupa dell'analisi delle partiture musicali su cui viene costruita una coreografia. Tale lavoro ha prodotto risultati interessanti e innovativi sia nel campo della danza, dove la compagnia ha ottenuto importanti premi e riconoscimenti a livello nazionale ed internazionale, sia nel campo musicale in cui spesso le interpretazioni coreografiche hanno fornito nuova luce a partiture anche molto note come La Tempesta di Beethoven, Danses Concertantes di Stravinskij, Quadri di un'esposizione di Musorgskij.
Fanno parte della compagnia:
- Michela Camerani
- Tiziana Maiuro
- Lucia Mariuz
- Chiara Mengato
- Saralisa Murroni
- Guido Patron
- Alice Rusconi Bodin
Per saperne di più:
Sul sito http://www.cmp.unipd.it/danza/ puoi trovare maggiori informazioni sulla compagnia e numerose fotografie, l'elenco delle oltre 50 coreografie di Elena Borgatti, una rassegna stampa tratta da quotidiani locali e nazionali e periodici specializzati.
Sul sito "http://www.ublog.com/sequences
è stato pubblicato un testo critico di Massimo Sannelli al libro "La diaria del danzatore" di Elena Borgatti.
Intervista
La Simple Company
Elena: danza, musica, coreografie... e un libro
La danza a Padova
La danza in tv
LA SIMPLE COMPANY
Com'è nata la Simple Company?
La compagnia è nata nel 1997 dall'idea di riunire un gruppo di artisti contemporanei a Padova. Non è nata all'interno di una scuola ma spontaneamente tra me e alcuni amici che hanno deciso di seguire una strada nuova, di esplorazione, di ricerca. Fin dall'inizio è stata composta non solo da danzatori ma anche da persone di diverse formazioni: attori, artisti di strada, circensi, ginnasti... danzatori "puri" ne ho avuti alcuni, ma non tantissimi. La nostra compagnia è sempre stata molto variegata.
Perché si chiama Simple Company?
E' stato difficile scegliere il nome della compagnia perché volevamo che riflettesse il nostro atteggiamento nei confronti dell'arte. Abbiamo scelto il nome dalla nostra prima coreografia, basata sulla Simple Symphony di Benjamin Britten, e non l'abbiamo più cambiato. Ci piace anche perché rispecchia non tanto l'aspetto esteriore del nostro lavoro, che in realtà può apparire spesso difficile e complicato, ma la semplicità con cui interagiscono tra loro le persone della compagnia. Lavoriamo molto bene insieme, non ci sono difficoltà all'interno del gruppo: è tutto molto semplice e lineare.
Come si entra nella compagnia?
Si entra tramite audizione. Questo termine spaventa tutti i danzatori! Mi chiedono: "cosa bisogna fare?" "cosa bisogna portare?". Invece si svolge tutto in maniera tranquilla: si comincia con una lezione di classica, per vedere come reagisce il corpo alla tecnica, e poi si prova una nostra coreografia di repertorio.
Quindi la parte tecnica è importante?
Non sempre. I danzatori tecnicamente più bravi spesso hanno un'espressività fredda. A me colpisce di più un'espressione, o la capacità di interagire con me; gli "esecutori" non mi piacciono. Il più delle volte nelle compagnie si dà grande importanza alla perfezione fisica: anche questo non mi piace. Non cerco la perfezione fisica, né la perfezione tecnica.
Ci sono anche dei corsi di formazione, a livello base e avanzato, vero?
Sì, sono tenuti dai danzatori della compagnia. Non sono corsi dove si insegnano le principali tecniche della danza contemporanea, come accade di norma nelle scuole: si focalizza l'attenzione soprattutto sulla ricerca del movimento e sulla sperimentazione, anche se gli allievi sono "principianti". La finalità è quella di dare una forma mentis diversa. Il "corso di danza" lo ritengo qualcosa di passivo per chi lo segue: da una parte c'è il docente che insegna, e dall'altra l'allievo che ascolta. Da noi, invece, l'allievo viene invitato a dare il proprio contributo artistico. Trovo più formativo spingere l'allievo a essere creativo e critico nei confronti del movimento, piuttosto che fornire solo nozioni. Se si insegna solo la tecnica, l'allievo sarà portato a giudicare se stesso e gli altri in base alla capacità di riprodurre gli elementi di quella tecnica, mentre invece si può fare danza in mille modi, anche realizzando in maniera apparentemente sbagliata una sequenza di movimenti.
Quante persone fanno attualmente parte della compagnia?
Sei persone sono lo "zoccolo duro" della compagnia.
E quante frequentano i corsi?
Una ventina circa.
I corsi servono a finanziare le attività della compagnia?
No, siamo finanziati dall'Università di Padova perché facciamo parte del Concentus Musicus Patavinus. A chi frequenta i corsi si chiede solo di contribuire alle spese per l'affitto della palestra, che è privata.
Sono molte le persone che chiedono di sostenere l'audizione per entrare in compagnia?
Sì. Sono tutti ballerini molto bravi. L'anno scorso mi sembra che fossero una quarantina, da tutto il Veneto, ma anche un paio di persone da fuori.
Quante ore provate alla settimana?
Dalle sei alle otto ore alla settimana.
La Simple Company porta la danza in contesti inusuali, come i musei. Perché?
Perché in teatro lo spazio è regolare, le luci si piazzano dove si vuole, le entrate e le uscite sono sempre le stesse e quindi il contesto del teatro può essere poco stimolante. Invece, ad esempio, nei musei si hanno a disposizione spazi difficili che mettono a dura prova la creatività e lo spirito di adattamento, ma che consentono anche di inventare spazi nuovi. Ricordo di un nostro spettacolo bellissimo al Museo delle Belle Arti di Nancy. Era un posto molto suggestivo. Sullo sfondo della scena avevamo i resti di un Bastione della città , ma lo spazio su cui dovevamo danzare era allucinante: aveva la forma di un trapezio rettangolo schiacciato, con le basi una molto lunga e l'altra molto corta. Non c'erano né quinte, né uscite di altro tipo e neppure un posto dove cambiarsi d'abito tra una coreografia e l'altra: non ci avevano avvertiti di tutte queste "mancanze" e, dopo un viaggio lunghissimo, ci siamo trovati spiazzati e costretti a trovare una soluzione a un paio d'ore dall'inizio dello spettacolo. Qualsiasi compagnia avrebbe rifiutato di esibirsi, e invece noi abbiamo reinventato lo spazio, lì al momento. Abbiamo adattato al nuovo spazio le nostre coreografie, come se fossero di gomma, e infine abbiamo piazzato alcune luci che illuminavano il Bastione dal basso: è stato bellissimo. Allo spettacolo c'erano moltissime persone, così tante che i posti a sedere erano ampiamente insufficienti e parte del pubblico ha assistito allo spettacolo seduto a terra a pochi centimetri da noi.
Una cosa simile è successa al Museo Eremitani. In quell'occasione ci era stato chiesto di replicare uno spettacolo che avevamo pensato e realizzato per un teatro. Inizialmente ci era stata proposta la Sala del Romanino, che è rettangolare e abbastanza grande, e quindi non pensavamo di avere problemi, poi però, a pochi giorni dallo spettacolo, la sala non era più a disposizione e ci è stato chiesto di danzare nel chiostro. Abbiamo usato tutto: gli angoli, le colonne, le scale, la grande ruota sul fondo del chiostro...persino il pozzo, i danzatori uscivano anche da lì.
Un altro posto che ricordo volentieri è il Bastione Santa Croce. Avremmo dovuto danzare su un palco allestito all'aperto, che però era inservibile perché troppo piccolo. Girando per il Bastione, ci siamo accorti della presenza una galleria sotto ad un arco molto ampio: a terra, però, c'erano calcinacci, foglie secche, detriti di ogni tipo, e persino un grosso bidone arrugginito...siamo andati in un supermercato, abbiamo comprato guantoni, scope, palette e sacchi dell'immondizia e, invece di fare le prove, abbiamo ripulito tutto e inventato un nuovo spazio scenico. L'arco illuminato era meraviglioso e l'atmosfera era raccolta e molto suggestiva. E' stato veramente molto bello.
E' ovvio che tutto questo stravolge l'idea della rappresentazione teatrale, con i suoi ritmi, gli spazi, i piazzamenti delle luci, le prove generali e tutto il resto. Il teatro è teatro: si sa che c'è uno spazio e che quello devi usare. Dal mio punto di vista può essere limitante. E' più interessante interagire con l'ambiente. Ogni volta è un trauma perché pensiamo di non riuscire a superare gli ostacoli, però alla fine siamo sempre stati capaci di realizzare uno spazio scenico dove prima non c'era, e di questo siamo molto contenti. Diciamo così: se nella danza contemporanea si lavora molto sull'improvvisazione del movimento, noi invece improvvisiamo sugli spazi.
Percepisci la presenza del pubblico quando danzi in un teatro? E in un museo?
Beh, questo è un capitolo delicato. Premetto che noi non ci esibiamo per il pubblico. Non pensiamo mai "questo può piacere, quest'altro no, questo può far scalpore, quest'altro può commuovere"... Una volta mi è capitato di fare le prove di uno spettacolo all'aperto sotto il temporale: tutti ripetevano "stasera non verrà nessuno perché piove", ma a me non interessava per niente e anzi mi stupivo di quanto gli altri invece ci tenessero. Non determino il successo di una rappresentazione in base all'affluenza del pubblico: un artista onesto sa, a prescindere dal pubblico, se ha operato bene oppure no, il resto non conta. Quello che mi interessa del rapporto artista-pubblico è, ad esempio, il dialogo. Non amo lo spettatore passivo che assiste ad uno spettacolo solo per "guardare qualcosa". Una volta, al termine di una nostra rappresentazione, una signora mi ha chiesto "Cosa voleva dire questo spettacolo?", ma io non le ho risposto, e invece ho chiesto io a lei che cosa avesse capito. La signora ha cominciato a parlare, a descrivermi mille immagini che, a dire la verità , non c'entravano niente con lo spettacolo, e mi raccontava così tante cose e in maniera così coinvolgente! Vedi, in quel momento era lei l'artista. Così voglio che sia il mio rapporto col pubblico: un rapporto di scambio. Mi piace che le persone non si sentano solo spettatori ma a loro volta artisti. Quando sento che qualcuno si sottrae ad ogni forma di giudizio dicendo "Non capisco niente di danza", io rispondo che non è importante capire qualcosa di danza: a volte le persone dell'ambiente dicono un mucchio di banalità su quello che vedono, mentre gli altri, i "non esperti", vedono le cose da un punto di vista diverso, e perciò molto spesso i loro commenti sono più originali, interessanti. E così capita che sono io a chiedere agli spettatori "cos'hai visto? cosa puoi dirmi?", e faccio domande per avere altri spunti, in continua interazione ed evoluzione.
Adatti lo spettacolo al luogo in cui si svolge?
Dipende molto. Come ti ho già detto, per me è bello giocare con l'ambiente. Ma il tono dello spettacolo è determinato anche dalla simpatia delle persone con cui si collabora. Se sono simpatiche, ci adattiamo ad ogni imprevisto e magari arricchiamo lo spettacolo proponendo novità , altrimenti rispondiamo all'antipatia con l'intransigenza e arriviamo addirittura a fare dispetti in scena.
ELENA: DANZA, MUSICA, COREOGRAFIE... E UN LIBRO
Mi parli un po' di te? Come ti sei avvicinata alla danza?
Ah, hanno dovuto allontanarmi! Ho avuto questa passione fin da piccola. Sono cresciuta a pane e musica classica: mio padre mi cantava i Lieder di Schubert per addormentarmi e mia madre era appassionata di musica del Settecento. A casa mia si ascoltava musica classica tutto il giorno. Il passo musica-danza è stato breve. Danzare era per me un modo per restituire l'affetto che mi era stato dato. Ed è ancora così: per me la danza è il mezzo di espressione preferenziale, più della parola, forse proprio perché a casa mia c'era questo affetto che ci legava attraverso i gesti e la musica, al di là delle parole.
E il tuo rapporto con la musica com'è?
Difficile. E' come dire qual è il mio rapporto con le mie braccia, le mie gambe... Tante volte la musica è anche il mio orologio. Se so di avere un quarto d'ora di tempo metto, ad esempio, la Grande Fuga di Beethoven: finita la musica, so che è passato il quarto d'ora. Faccio continuamente pensieri musicali, se sono in auto e metto la freccia mi viene in mente una musica che ha quel ritmo, se guardo qualcuno che cammina in un determinato modo, o sento la voce di una persona, associo immediatamente una musica che si adatta a quella camminata o a quella voce... Non saprei dirti com'è: è! Mi capita di continuo, anche adesso. La musica racconta, parla, come quando si è tra amici. Mi sento continuamente chiamata ad interagire con la musica. E' qualcosa che esula da quello che può rappresentare la musica da un punto di vista estetico.
Come nascono le tue coreografie?
Le coreografie non nascono da un ragionamento: è la musica che mi suggerisce quello che devo fare. I miei danzatori sono talmente abituati a questo mio modo di lavorare che ormai anche loro percepiscono certi "suggerimenti" musicali. Sai, non è una cosa così frequente nella danza. La mia impressione è che danza e musica non si capiscano e che spesso viaggino su canali separati. Nel lavoro di coreografia, ad esempio, viene data molta importanza al prodotto finito, all'insieme di movimenti, musiche, luci, costumi, scene, ma il rapporto con la musica è un po' superficiale. Noi invece analizziamo molto la musica, magari trascurando altri aspetti più legati allo "spettacolo", e se decidiamo di utilizzare una partitura, non ne trascuriamo neppure un elemento.
Quindi il punto di partenza per una coreografia è sempre la musica?
Beh, non sempre. Le coreografie nascono in maniera molto diversa tra di loro, ed ultimamente lo spunto mi è stato dato da alcune poesie. Ho la fortuna di avere alcuni amici poeti molto bravi e, leggendoli, mi sono accorta che le loro poesie non erano solo legate a immagini ma erano anche sonore: le sonorità perfette di alcuni testi appagavano così tanto la mia emotività che sono diventate l'origine di nuove coreografie. Comunque, anche in questo caso, l'ispirazione fondamentale è sempre legata al suono. Altre volte succede che lo spunto provenga direttamente dai miei danzatori, dal loro carattere, dai loro atteggiamenti, dai loro errori. Ad esempio ieri, durante le prove, una ragazza ha sbagliato la sequenza, ma il suo "errore" era un movimento così naturale da far sembrare la mia idea iniziale una forzatura. E così abbiamo modificato la coreografia inserendo l' "errore". Non mi piace spingere i danzatori a fare quello che voglio. Preferisco che sia tutto fluido.
Mi parli del tuo libro "Diaria di un danzatore"?
Sono un po' in imbarazzo perché non riesco a dare un carattere a questo libro. Parla di musica, poesia e danza, ed è corredato da un gran numero di foto della compagnia fatte da Michele Marrazzo. Questo sul piano formale. Ma ogni pagina ha un suo carattere e una diversa impaginazione, e c'è un forte legame parola - immagine. I danzatori non sono mai "in posa" perché volevo dare della danza una descrizione non "kitsch": sono tutte fotografie scattate durante le prove o nel "dietro le quinte" e descrivono con grande realismo gli stati d'animo dei danzatori.
Devo dirlo: è un libro fortemente critico nei confronti dell'ambiente della danza, soprattutto di chi la usa per arrivare al successo o per appagare il proprio ego. Bisogna avere rispetto della danza. Scrivere i testi è stato difficile perché ho dovuto rivivere molti ricordi: ci sono tante storie legate alle persone che ho incontrato, e tanti personaggi che in un modo o nell'altro mi hanno arricchita. L'ho scritto sostanzialmente per i miei ragazzi, e lo considero quasi come un nostro diario personale. Recentemente è stato presentato al Bo da Massimo Sannelli che in quell'occasione ha espresso giudizi e opinioni che mi hanno commossa.
LA DANZA A PADOVA
Ci sono occasioni per vedere buoni spettacoli di danza a Padova?
Secondo me sì, non nei posti tradizionali (dove, se va bene, si vedono compagnie affermate che circuitano, ormai da qualche anno, con spettacoli non propriamente all'avanguardia) ma in quelli sconosciuti. Si ha come l'impressione che la sperimentazione sulla danza sia un'attività da carbonari. Sì, ci sono belle forme di ricerca, ma in luoghi inusuali, poco frequentati, ci sono tante idee e creatività . Purtroppo però chi non è dell'ambiente della danza non li conosce né ha modo di farlo. Manca la pubblicità , e questi piccoli gruppi, che fanno cose interessanti, a volte sono i primi a non promuoversi a sufficienza.
Esiste una cultura della danza a Padova?
Ci sono tante scuole, tanto frequentate. Alcune di queste sono ottime scuole. Però ho l'impressione che al di là dell'insegnamento si vada poco oltre. D'altronde chi ha una scuola difficilmente può permettersi di fare ricerca. Quindi ci sono tante persone che conoscono la danza, la studiano e la praticano, però ad esempio manca una compagnia rappresentativa della città che raccolga espressioni diverse e coreografi diversi. Eppure ci sarebbero gli elementi per farlo, c'è tanto talento a Padova.
La danza è un linguaggio molto affascinante, ma difficile. Come si può avvicinare a questo linguaggio un pubblico più ampio?
Non lo so. Secondo me chi opera nel mondo della danza dovrebbe essere più accogliente. Il mondo della danza punta molto sull'aspetto fisico, sull'atletismo e sulla capacità di fare cose strabilianti in scena. Bisognerebbe aprirsi di più dal punto di vista culturale, e accettare anche persone che, secondo i canoni correnti, non avrebbero il fisico adatto per fare danza. Pina Bausch ad esempio ha fatto una coreografia con persone anziane: giusto, perché gli anziani non dovrebbero danzare?
Si tratta di riuscire a capire quello che una persona può offrire: quella è già danza. Purtroppo però fissare l'attenzione su qualcosa che è davanti agli occhi di tutti può sembrare talmente naturale e "facile" da non essere nemmeno degno di considerazione, e quindi diventa invisibile.
Purtroppo sia le scuole di danza, sia i biglietti per gli spettacoli sono in genere abbastanza costosi. Non c'è il rischio che la danza diventi una forma d'espressione un po' elitaria?
E' già così. Di recente ho parlato con l'assessore Balbinot per proporre un progetto di laboratorio di danza multiculturale rivolto ai bambini. Ho sottolineato che mi piacerebbe fosse gratuito per permettere anche ai figli di immigrati, e di persone in difficoltà , di frequentarlo. C'è un tale potenziale nella nostra città ! I bambini hanno il diritto di fare cose belle insieme, di divertirsi.
LA DANZA IN TV
Credo che molte ragazze si iscrivano a una scuola di danza con la speranza di ballare in un programma televisivo. Secondo te la tv nuoce alla danza come forma d'arte?
Tantissimo. Cioè... è un bene che ci sia tanta danza in tv, è un male che ci sia "quel" tipo di danza. Ad esempio, nelle trasmissioni in cui ci sono quelle specie di "scuole" viene proposto solo un genere di danza, limitato e limitante. Pare che il fine dello studio sia solo fare le capriole, tuffarsi l'uno sull'altro, lanciarsi in aria e sopravvivere dignitosamente al "gioco al massacro" delle cosiddette "prese". La danza è un linguaggio molto più ricco!
Le coreografie televisive sono tutte uguali, i passi sono sempre gli stessi, i costumi tutti dello stesso tipo. Lo trovo veramente noioso: ognuno mostra quello che sa fare e, se non sa fare niente, sorride alle telecamere agitando le braccia a tempo di musica. Questa non è cultura della danza, è spettacolo di basso livello. Come mai, per esempio, nelle "scuole di danza" televisive, che dovrebbero formare nuovi danzatori, non si accenna minimamente alla danza contemporanea o al teatro-danza? Molti esperti del settore si lamentano dell'assenza di danza in tv perché in effetti, allo stato attuale, è come se non ci fosse. Se poi parliamo di letterine o veline, beh, sono ruoli televisivi umilianti. Se ci sono tante ragazze che si iscrivono a danza aspirando a quello, peggio per loro, e mi dispiace perché perdono delle buone occasioni per imparare qualcosa di interessante. Ci sono mamme che iscrivono le loro figlie a danza perché sperano prima o poi di vederle in televisione. Peccato...
Arianna Pellegrini