Fermenti Culturali. Intervista ad Andrea Pennacchi

Fermenti Culturali. Intervista ad Andrea Pennacchi


Non solo monumenti e musei: la cultura di una città  è fatta anche e soprattutto di persone, che hanno idee e passione. Con questa convinzione inauguriamo la rubrica "Fermenti culturali", in cui vogliamo presentare gli artisti di Padova: coloro che, con le loro idee, la loro passione, i loro "€œfermenti"€, rendono vivace la vita culturale della città . Maggiore spazio verrà  dato agli artisti più giovani, ancora poco noti al grande pubblico.

Il primo appuntamento è con Andrea Pennacchi, attore e regista teatrale.


Chi è
Intervista




Chi è



Attore del Teatro Popolare di Ricerca dal 1991, si è formato prima nel laboratorio biennale della compagnia e in seguito ha proseguito la propria formazione seguendo corsi con Mamadou Dioume, del C.I.C.T. di Peter Brook, Vayu Naidu dell'Intercultural Storytelling Company "Brumhalata di Birmingham, Moni Ovadia, Marco Baliani, Laura Curino. Ha inoltre studiato regia con Eimuntas Nekrosius e con Gigi Dall'Aglio. Ha insegnato "Struttura del Racconto Teatrale" al corso professionale per attori organizzato in collaborazione con ARTEVEN e organizzato dalla Regione Veneto. E' direttore artistico del Teatro Filarmonico di Piove di Sacco.



Intervista



La formazione teatrale
"Omero non piange mai"
Il teatro di racconto
Il teatro a Padova


L'appuntamento è in un'enoteca che si chiama Evoè, come l'associazione teatrale di cui Andrea Pennacchi fa parte. A intervista conclusa, gli chiedo perchè l'associazione si chiama così, immaginandomi la risposta. Andrea infatti ride e mi
chiede:"Dove siamo qui?". Ha riso spesso durante l'intervista, perchè lui è così: lavora seriamente, ma non si prende mai sul serio. Ha il faccino di un orsetto a cui piace il miele, e una grande forza fisica. Una forza che il teatro e le arti marziali (è un appassionato di tai chi) gli hanno insegnato a controllare. La forza è anche uno dei temi dello spettacolo "Omero non piange mai" con il quale Andrea Pennacchi debutterà  nel marzo 2005 come autore. A Padova potremo vederlo in aprile, al teatro MPX, nell'ambito della rassegna Arti Inferiori.


La formazione teatrale



Com'è nata la tua passione per il teatro?

E' nata un po' così ... alla fine di un percorso di vita che andava in tutt'altra direzione mi sono ritrovato di nuovo a Padova iscritto all'università  e non sapevo bene cosa sarebbe successo. Assieme ad un vecchio amico d'infanzia ci siamo iscritti a un laboratorio, uno dei tanti che si trovavano a Padova, ma per divertimento. All'epoca ero molto ignorante di teatro, non avevo visto quasi niente. Ricordo da ragazzino qualcosa di Ruzante, non mi era neanche piaciuta. Questo me lo ricordo: mi ero annoiato mortalmente. Quindi era proprio così, per fare un'attività , invece di fare palestra ho scelto teatro. Poi c'è stato l'imprevisto scoppio. Controllato, però, nel senso che non è stato amore a prima vista, è stata una cosa graduale che è cresciuta come un tepore, pian pianino è cresciuto d'intensità  fino a diventare adesso, non faccio fatica ad ammetterlo, una specie di fuoco che mi brucia dentro. Ho fame di teatro: di andare a vedere, di fare...però c'è voluto del tempo. Prima era solo questione di fare, invece adesso è proprio...fame!

Delle cose che hai fatto, quali ricordi particolarmente come tappe di un percorso di crescita?

Più d'una. Mi sono iscritto al laboratorio di una compagnia che ancora mi sta molto a cuore anche se non ne faccio più parte, che è il Teatro Popolare di Ricerca (TPR). Secondo me era un ambiente ideale per me perché c'era gente, sì, un po' fanatica, ma c'era anche gente che voleva divertirsi, che non aveva nessuna intenzione di prendersi sul serio, cioè aveva voglia di prendere sul serio quello che faceva ma non di prendersi troppo sul serio. Per un periodo, nel periodo più creativo da un certo punto di vista per me al TPR, c'è stato veramente un gruppo di attori bravissimi secondo me -io mi tiro fuori ma guardando dall'esterno c'erano veramente degli attori bravi, appassionati - , il direttore, che era ed è tuttora Lorenzo Rizzato, ha notato questa cosa e ha investito energia in questo gruppo...gente che adesso è a Roma a cercare di fare fiction, film, cose simili, più io adesso lo faccio di mestiere, Pierantonio Rizzato anche. Quindi c'è stato veramente un periodo in cui abbiamo fatto cose molto belle. La prima, il mio debutto, quando per una serie strana di coincidenze, prima ancora che io facessi il saggio finale del laboratorio (che era biennale), mi hanno portato a fare una Moschea in Francia, a Nantes. Bellissimo posto. Per me figurati è stata una bellissima esperienza. Un'altra tappa per me molto importante in cui abbiamo un po' preso in mano le redini dell'attività  teatrale e io ho tradotto Rosencrantz e Guildestern sono morti di Tom Stoppard e assieme a questo nucleo di pazzi scatenati l'abbiamo messo in scena e l'abbiamo portato al Verdi. Serata veramente indimenticabile: il sipario si apre, seicento persone che ti guardano. E' abbastanza forte, soprattutto quando uno è abituato al teatrino da cento, duecento posti al massimo: tre volte tanto! E poi al Verdi, teatro storico! Altre tappe importanti...Meno gioiosa è stata la mia decisione di uscire dal TPR, che è stata comunque una tappa importante, sofferta, che adesso sono contento di aver fatto, per quanto appunto mi senta molto affezionato al TPR. Poi la decisione di lavorare a Piove di Sacco, fare il direttore artistico di quel teatro, su offerta dei direttori della Nuova Scena, che sono Filippo Zago e Raffaella Romano, gente della mia età , molto in gamba, che si dà  molto da fare nell'ambito cultura, teatro, cinema.

A livello formativo ricordi dei momenti importanti?

A livello formativo tappe importanti ce n'è stata una marea! Facendo il laboratorio al TPR mi rendevo conto man mano di quante competenze ci vogliono per fare teatro ed ero molto insoddisfatto del mio essere in scena. Mi facevo un sacco di domande. A non tutte Rizzato voleva o poteva rispondere. Visto che eravamo anche Centro Universitario Teatrale, ho iniziato assieme ad altri a organizzare corsi, laboratori invitando artisti da fuori. Il primo incontro ad esempio con Mamadou D'Oume, uno degli attori di Peter Brook a Parigi, è stato traumatico da un lato, ma dall'altro ha aperto orizzonti, ho cominciato a capire significava recitare. Lì ho cominciato a capire cosa voleva dire farlo come un mestiere, ma con la passione che ci voleva. Da lì è stata una serie d'incontri fortunati con gente molto in gamba. Alcuni voluti, nel senso che li abbiamo chiamati. Moni Ovaia ad esempio è stata un'altra esperienza importantissima per me: sia umanamente, quando poi ci siamo trovati siamo stati sempre molto legati, sia professionalmente perché ho iniziato a capire le potenzialità  della voce, ho fatto un lavoro importantissimo sul corpo e la voce assieme. Poi i nomi potrebbero moltiplicarsi. Un altro nome gigantesco è Gigi Dall'Aglio, che è stato a lungo uno dei membri della fondazione Teatro Due di Parma. Mi ha fatto capire che era possibile costruire un'opera d'arte partendo da un lavoro artigianale: ti scegli il legno, lo lavori, fai una cosa che se sei stato molto attento è anche un po' toccata da Dio e da artigiano diventi artista. Però comunque anche solo un artigiano non è niente male, se è un buon artigiano. I debiti sono infiniti perché ad ognuno ho rubato qualcosa, Marco Baliani, Giuliana Musso, Tapa Sudana, un altro attore di Peter Brook...io ho cercato costantemente di apprendere cose nuove, sempre seguendo un filone chiaro, cercando di non andare da un capo all'altro, però, sì, tante sono le persone cui mi sento debitore.

Anche tu sei un formatore, mi parli della tua attività  nei laboratori di formazione?

Premetto che io non ritengo di avere ancora molto da insegnare. C'è ancora tutto un percorso che sto facendo e piano piano comprende anche delle tecniche che si possono trasmettere, però il mio bagaglio è ancora ridicolo comparato a quello di gente tosta da trent'anni in campo. Però una cosa che mi piace fare e che secondo me ha una sua utilità  altrimenti non lo farei è quella dei laboratori, che non sono corsi. Cioè non è che io mi metto lì in cattedra e insegno delle cose. Mi metto semplicemente come guida di un gruppo che parte all'esplorazione di qualcosa. Dopo una prima fase in cui io do, condivido, queste cose tecniche che io ho appreso per strada, la fase successiva è cercare assieme un modo per raccontare storie come gruppo, quindi creare gruppo, utilizzare le tecniche che abbiamo imparato e magari -perché no?- aggiungerne di nuove ... se abbiamo qualche cosa in più la si mette dentro, si fa questo gran minestrone e si cerca di renderlo più omogeneo o più saporito possibile. Questo mi piace e lo faccio. Tra l'altro in un momento in cui ancora fare solo in giro spettacoli non mi fa guadagnare abbastanza per vivere, bisogna essere sinceri, l'attività  laboratoriale integra in maniera molto utile. Ma ci tengo a dire che non lo farei se secondo me non avesse una valenza che va al di là  dell'insegnamento, proprio come crescita, anche mia. E' una cosa che faccio perchè mi serve. In alcuni casi quello che apprendo è drammaticamente impressionante, in altri casi magari è più piccolo. Faccio parecchia attività  formativa in questo periodo: due laboratori al circolo Carichi Sospesi...

Due?

Sì, doveva essere uno ma c'era troppa gente: non si può stare dietro a 30 persone contemporaneamente, così abbiamo diviso il gruppo in due. Poi faccio un laboratorio a Chioggia e uno a Piove di Sacco, più orientato sul racconto.



"Omero non piange mai"



L'anno prossimo debutti come autore. Quando hai sentito che era il momento di affrontare la scrittura di un testo?

Ho sempre avuto l'idea di comporre un testo. Man mano che mi avvicinavo al teatro di racconto, l'idea di scrivere un testo di racconto è emersa come quella più probabile. Anche per motivi bassamente economici: per produrlo, se hai sei attori poi li devi pagare.
Ho dovuto rileggere seriamente l'Iliade per un laboratorio fatto con l'A.T.I.R. diretto da Serena Sinigaglia, una regista bravissima ma con dei metodi che non andavano bene per me. Il pregio principale del laboratorio è che ho dovuto leggere seriamente, non più da adolescente, l'Iliade. Ho scoperto che c'erano dei passi dell'Iliade che potevano contenere tutte le cose che volevo raccontare: cose importanti per me, cose importanti per tutti. Temi che sentivo, come la violenza, la forza, il dolore per la perdita, che io ho provato fortissimo. Tutte queste cose ci stavano dentro questo testo, che in più aveva una sua bellezza che secondo me andava raccontata. In realtà  col senno di poi si è scoperto che quasi tutti la pensavano così: io credevo di essere intelligentissimo, e invece è arrivato Baricco, la Sinigaglia ha fatto le Troiane, chiunque sta facendo l'Iliade!

Ma c'è il tuo apporto personale...

Qui c'è un mio apporto personale fortissimo, anche piuttosto difficile da tirar fuori, che grazie a Dio esce attraverso le parole di Omero. E' una profonda meditazione sulla violenza, la rabbia, la forza intesa nel senso più ampio, compreso quello della prevaricazione, la paura. Sono tutte tematiche che io sentivo tantissimo. Questo è un periodo in cui tutti le sentono, e così anch'io. In più l'amore tra gli esseri umani in situazioni estremamente difficili. Canalizzava benissimo cose che io sento. Ma mi chiedevo sempre: ha senso che io racconti queste cose che sento io personalmente, cioè interessa al pubblico? Perché dovrebbe pagare un biglietto? però quando questa persona che dice queste cose, e le dice con parole meravigliose, è Omero, beh allora forse qualcun altro le può condividere. Da lì è partito il progetto. Ho avuto la fortuna enorme che Laura Curino mi abbia aiutato con la drammaturgia perché effettivamente c'è un lavoro faticosissimo da fare sulla scrittura del testo, se vuoi che sia un buon testo, ed è proprio di limare le cose, tornarci, risistemarle, leggere ad alta voce le cose, sentire se funzionano, rileggerle, scriverle di nuovo, ricomporle...cose che non venivano fuori alla prima lettura verranno fuori alla sesta. Un lavoro artigianale, nel vero senso della parola, che ancora non conoscevo. Avrei fatto un lavoro molto più rozzo senza l'aiuto di Laura, e lei è stata gentilissima e bravissima. Si è messa con una disciplina ferrea e nonostante abbia tremila impegni è riuscita a trovare del tempo anche per questa cosa.

Finora hai fatto due prove aperte per il pubblico del tuo spettacolo "Omero non piange mai". Qual è stata la reazione del pubblico? E come è cambiato il testo dopo quelle esperienze?

C'è stata una prima prova aperta in un ambiente estremamente amichevole, che è il circolo Carichi Sospesi, e l'impressione è stata buonissima. La prima cosa che mi è venuta in mente è stata: bisogna lavorare bene sul rapporto con il musicista. Questo è venuto fuori chiaramente perché eravamo quasi separati, ma questo si può sistemare in corso d'opera. Un'altra cosa che ho notato, e non è certo un caso, è che c'erano dei momenti paoliniani. Io naturalmente ho ben presente l'esempio di Paolini, anche se in realtà  è un po' più complessa la cosa perché ho presente l'esempio di Paolini, di Laura Curino, di tutti quelli che fanno capo a Vacis, che hanno lavorato al Teatro Settimo di Vacis, e loro mi piacciono tantissimo, cioè mi danno sensazioni fortissime quando ascolto i loro racconti, quindi credo sia abbastanza naturale, che anche quasi inconsciamente nel delivery di questo testo siano venuti fuori dei momenti vacisiani, più che paoliniani. Però certo è un rischio: se fai una cosa in Veneto che assomiglia a Paolini, tutti diranno "ecco, ha copiato da Paolini". Quindi bisogna stare attenti.

Com'è andata la seconda prova?

La seconda prova è stata in un ambiente meno amichevole, più casalingo nel senso che è il mio teatro (quello di Piove di Sacco), però in cui c'erano anche operatori del settore, gente che mi era amica ma non veniva da amica, nel senso che veniva professionalmente a vedere. Lì c'è stata la conferma che la linea è giusta, ma anche un profondo lavoro di riduzione del testo, soprattutto della parte omerica, non perché risultasse pesante, ma perché l'accumulo di metafore che c'è in Omero poteva oscurare la bellezza di queste metafore. Se io metto trentasei volte "come il leone che..." può essere che a un certo punto si perda un po' l'effetto straniante di queste metafore, che sono veramente belle e potenti. Una cosa altrettanto importante, che riguarda già  una fase ulteriore, è quella del "è tempo di dare carne a questo testo". Le prove aperte sono state delle letture, è tempo di mettere in pancia questo testo, come si dice, e vedere quali sono i personaggi che emergono, i movimenti, e finalmente qual è il rapporto con la musica.

Parliamo allora dei tuoi musicisti, Francesco Basso e Sergio Marchesini.

Francesco Basso ha composto le canzoni, purtroppo non è in scena, anche se è un vero animale da palcoscenico, però non ci stava in questa cosa. Mi ha dato una mano e si è prestato con generosità  alla composizione delle canzoni. Le canzoni sono ancora in fase di studio, però ci sono credo tre canzoni che verranno composte da me e Francesco e verranno cantate nel corso dello spettacolo, più una che è We'll meet again che mi piace molto. E' una canzone molto dolce, americana di cui io mi sono innamorato nella versione cantata da Johnny Cash, che è bellissima. Con Francesco lavoriamo, abbiamo anche fatto una regia per uno spettacolo di teatro ragazzi, ci conosciamo abbastanza bene ormai. Ho poi trovato un musicista di sensibilità  inaudita, Sergio Marchesini, che è veramente bravissimo. Suona nella Piccola Bottega Baltazar, ed ha un orecchio, una sensibilità  teatrale elevatissima, che non trovi tanto facilmente. Mi trovo molto bene con lui. Non è sempre facile lavorare in tanti su una cosa, però è fondamentale. Io non ho delle competenze e non ho nessuna intenzione di rovinare uno spettacolo perché mi metto a fare tutto io. Cerco di acquisirle, però ci vuole tempo, pazienza. Nel frattempo la cosa migliore è parlare con qualcuno che se ne intende, ne capisce e ti può dare una mano. Queste persone le ho trovate. Tra l'altro in questo periodo i racconti stanno fiorendo dappertutto, e la cosa a me fa piacere perché a me il teatro di racconto piace. Non lo vedo come una moda: è una modalità  di teatro che è giusto abbia un suo valore e una sua diffusione. Però c'è un fatto: moltissimi di questi racconti hanno come accompagnamento la fisarmonica. Questo mi ha mandato un po' in crisi perché ho pensato "anch'io c'ho la fisarmonica, allora tutti penseranno: ecco, l'ennesimo raccontatore con la fisarmonica". Però ho pensato: preferisco scegliere un altro strumento a caso e lavorare con qualcuno che non conosco oppure scegliere la fisarmonica la cui sonorità  secondo me è quella giusta per queste cose e lavorare con uno che stimo e con cui mi trovo molto bene? Ovviamente la scelta non si poneva nemmeno.


Teatro di racconto



Teatro di racconto e teatro classico, di recitazione. Due modalità  di fare teatro, in cosa si differenziano e quali invece sono i punti in comune?

La domanda è enorme, da tesi di laurea! La questione in realtà  è semplicissima, se vogliamo andare alla struttura profonda ed eliminare la superficie: il teatro di racconto è la radice di ogni possibile teatro, perché i racconti li frantumi ed hai un tipo di teatro, i racconti li metti completamente in scena in prima persona ed hai un altro tipo di teatro...Però raccontare storie è una necessità  profonda degli esseri umani che prende tante forme. Il motivo per cui adesso è ritornato nella sua forma originale, e originaria, è che ci sono dei bisogni, delle cose, che evidentemente il teatro di tradizione aveva un po' dimenticato. Secondo me uno di questi fattori è la rottura della quarta parete, cioè il fatto che il narratore renda costantemente evidente l'importanza della presenza del pubblico, rompa costantemente il muro che separa palco- pubblico per interrogarlo, per parlargli. Una tradizione che conosciamo già  da Dario Fo, e che Paolini ha usato, e che tutti hanno usato, ed è giusto che sia così: non perché si tratta di copiare, ma perché il narratore col pubblico deve avere un dialogo. Il narratore ad un certo punto diventa catalizzatore di un'attenzione di una comunità . Se non si crea attorno a lui una comunità , se la gente va a vedere i narratori come si guarda la televisione, non funziona la cosa, muore il racconto. Quindi è giustissimo come fa ad esempio Paolini far salire il pubblico sul palco, giustissimo ad esempio che se c'è un telefonino che trilla non è che faccio finta di niente come nel teatro di tradizione, ma guardo il "colpevole" e gli dico "Ciccio, spegni il telefonino". Quello che c'è, come dice Laura Curino, c'è. Non si ignora niente. E' una necessità  profonda che la gente sempre più sta sentendo, ovvero sentirsi parte di quello che sta succedendo: essere parte di un gruppo che per una sera crea qualcosa. Radicalmente è questo: il teatro di racconto è la radice di tutti i racconti possibili. Il teatro di tradizione è uno sviluppo, molto legato ai suoi tempi, e quindi si vede che perde un po' di colpi. Il teatro di racconto nasce, come dice Baliani, da una crisi del teatro. Baliani è un po' pessimista su questa cosa. Per quanto io lo stimi in maniera enorme, tenderei ad essere più ottimista su questa cosa: secondo me è una crisi positiva. Non credo che finita questa crisi il teatro di racconto si estingua, semplicemente muterà , cambierà  il modo di raccontare. Non è un caso se alla Biennale di quest'anno abbiamo visto finalmente due narratori.


Il teatro a Padova




Parliamo del teatro a Padova.

Padova è una città  strana perché ha una marea di realtà  teatrali: amatoriali, semiprofessionali, ecc... che vanno in grandezza dal Verdi, che assorbe risorse come un'industria in fallimento, alla realtà  con due componenti che fa le letture nelle biblioteche. Non vorrei esagerare, ma secondo me si tratta di migliaia di persone che fanno teatro. Questo è il lato positivo. Il lato negativo è che sono estremamente frammentate queste realtà , non comunicano tra di loro, non hanno una piattaforma comune con cui trovarsi e discutere e quindi frammentano l'attività  teatrale. Non solo: spessissimo uno non va a vedere quello che fa l'altro, e questa secondo me è una gravissima perdita. Non permette a Padova di canalizzare risorse immense, magari collegate anche all'Università , e quindi rimane sempre un brulichio di cose piccole, in cui spesso vedi cose molto interessanti che però poi non riescono mai a realizzarsi perché si annullano tra di loro. Il tutto secondo me oppresso da questo enorme fabbricone del Verdi che ciuccia, ciuccia, ciuccia senza restituire.

Ci sono buone occasioni di formazione a Padova?

Quel che ho detto vale anche per l'attività  formativa. Chiunque voglia cominciare a fare teatro ha un'immensa quantità  di risorse a disposizione, e può gustare un po' di tutto, perché può provare il teatro del TPR, può andare al Tam, Abracalam, Teatro Continuo, può andare al Verdi che adesso ha l'attività  formativa di Terrani. A livello "inizio a fare teatro" c'è una marea di possibilità , anche buone. Non così se vuoi farlo di professione, non così se vuoi ampliare la tua mente, non così se vuoi lavorare: lì le cose cambiano radicalmente. Adesso c'è una grande iniziativa, che fanno i ragazzi dei Carichi Sospesi: un gruppo di teatranti che ha deciso che mancava qualcosa a Padova, e si vede che hanno beccato una vena perché il locale spesso è pieno. C'era bisogno di un posto dove si va a bere una birra, si chiacchiera, si va a vedere uno spettacolo, si vedono cose nuove. A me piace molto, dovrebbe avere più spazio, essere aiutato dal Comune, essere più grande. Ma sicuramente troverà  delle resistenze, la gente non si renderà  conto, difenderà  la propria parrocchietta. Mi dispiace perché ci vorrebbe un momento di dialogo. Non dico tra piccole realtà  e Verdi, perché quello non so quanto sia credibile, ma almeno tra realtà  medio-piccole, quello dovrebbe esserci.

E in quanto a spettacoli?

Ribadisco quello che ti ho appena detto. Io vedo cose interessanti a Padova. Vado al Tam e le vedo. Il lavoro sui carcerati del Tam è grandioso: Cinzia Zanellato ha fatto una cosa bellissima e socialmente...mmm...che vivifica; ai Carichi ho visto cose bellissime che mi hanno emozionato, anche cose che non sarei andato a vedere in altri parti per bigotteria, lo ammetto, però in un contenitore così neutro sono andato a vederle. C'è Beppe Casales che ha fatto il suo racconto, a me è piaciuto. Ho visto cose veramente belle. Il problema è sempre quello: sono cose piccole. Non riescono ad uscire, a darsi una produzione un po' più organizzata, che non riescono ad avere dei fondi, e questo mi dispiace moltissimo perché le risorse ci sono tutte. Bisognerebbe lavorare per creare qualcosa più ampio. Quindi spettacoli ne vedo. Poi adesso c'è questa cosa di Arteven [la rassegna Arti Inferiori], è un'ottima cosa. Non lo dico perchè ci sono io! E' una splendida rassegna. E' anche in certo senso una microsfida al Verdi, che invece si ostina a fare sempre le stesse cose. Qualche anno fa aveva tentato di fare una stagione più giovanile assieme a quella tradizionale, ma poi non l'hanno più ripetuta.

Il festival Itaca, di cui sei uno degli organizzatori, tornerà  a Padova?

Il festival Itaca [per informazioni visita il sito dell'associazione Tonicorti] quest'anno è a un punto di svolta molto importante. Può essere che torni a Padova, era nato per Padova e anche se abbiamo trovato un'ospitalità  meravigliosa ad Abano, molti di noi credono che debba ritornare a Padova. Vuole anche crescere, per questo stiamo lavorando già  perché vorremmo che fosse una cosa più integrata nella città , più articolata nel programma. Finora la parte dominante è stata quella video e musicale, noi teatranti vorremmo che la parte teatrale avesse maggiore rilevanza e quindi dobbiamo lavorare noi. Ci vuole un lavoro più intenso anche per la parte teatrale, che presenti nuove produzioni...anche se finora abbiamo fatto secondo me un buon lavoro, perché abbiamo presentato cose in anteprima che a Padova non si vedevano: Ascanio Celestini quando ancora non era famosissimo, Giuliana Musso con l'anteprima del suo spettacolo Sexmachine, Baliani con una cosa che non portava più tanto in giro, Corpo di Stato, poi l'ultima cosa che abbiamo fatto noi dell'associazione Evoè, Scandisk di Vitaliano Trevisan. Non sono mancate le cose buone. Ma vorremmo farle ancora meglio, magari nate da progetti ad hoc per Itaca.

Arianna Pellegrini