Ascoltare il pubblico. Intervista a Marco Paolini
Cosa vuol dire comunicare con il pubblico? Qual è il ruolo della parola e dei gesti? Come fa l'attore a mettersi in relazione con gli spettatori? E come può emozionare e coinvolgere senza abusare della propria posizione?
Marco Paolini è nato a Belluno nel 1956. E' autore, attore e regista. Il suo ultimo spettacolo teatrale è Il sergente, un omaggio a Mario Rigoni Stern. Chiara D'ambros, che ha già parlato del teatro di narrazione nelle pagine di PadovaCultura, ha seguito a lungo Marco Paolini nei suoi spettacoli e ha avuto modo di intervistarlo nel 2003 al Teatro Civico di Schio, durante le prove per i racconti preparati per la trasmissione televisiva Report.
Questa intervista è un contributo prezioso per capire meglio un modo diverso di fare teatro, attraverso il punto di vista di un grande narratore.
Dicevi che in questi giorni stai "mastegando" i racconti. Mi parli di come ti metti in relazione con il pubblico, del tuo ascolto del pubblico?
In generale, più si è insicuri, più si prova a dominare il pubblico. Chi ha un atteggiamento domatorio fa così perché non ha un altro modo di tenere la situazione sotto controllo: è come nell'illusionismo dove tutto è fondato sul fatto che non si deve spezzare mai una catena, e quindi c'è una carica, una suggestione. Io da ragazzo ero, credo, più portato a quel tipo di atteggiamento: a dominare il pubblico. Con l'età e con l'esperienza c'è sempre meno bisogno di fare, perché si è, e quindi pian piano ho imparato che i meccanismi per reggere l'attenzione non sono solo di tipo attivo ma sono anche passivi: sono meccanismi di ascolto, che producono comunque un filo, un'empatia, un qualcosa di vivo tra chi fa e chi è lì per ascoltare. Di solito in un racconto nuovo ho bisogno... Quando racconto le prime volte in pubblico scopro delle cose, cioè scopro le reazioni. Una parte dell'attenzione è rivolta all'ascolto. Altrimenti faccio una cosa, che sembra banale ma non lo è: mi registro e in un secondo tempo mi riascolto. Evidentemente la percezione che hai mentre fai una cosa è diversa da quella che hai riascoltando. Io per esempio mi annoio riascoltando, quindi è meno positiva come percezione, mentre è più interessante e più intenso quello che si riesce sentire facendo. Senza esagerare, perché non puoi fare lo spettatore, o il regista: devi fare l'attore che ascolta. E le cose che si ascoltano per le prime volte sono così stupefacenti... per esempio il silenzio, oltre all'applauso, la risata, l'intensità dell'ascolto danno delle grandi emozioni e insegnano tantissimo. Ti insegnano la strada giusta per raccontare una cosa, perché sicuramente ce n'è una più giusta delle altre. Quando pian piano hai trovato quella strada, ci sono ancora delle variabili. E' come la strada di casa, da casa al lavoro: puoi ancora trovare dei pezzi che non hai mai fatto oppure ci sono dei cambiamenti, ma hai imparato a fare così bene quella strada che camminando puoi leggere in giornale o fare delle altre cose. Ecco, in qualche modo accade un po' anche questo: posso concentrarmi su una nota o su un dettaglio o su un'immagine, posso concentrarmi sul viso di una persona. A volte si dialoga con pochissime persone in mezzo alle altre, per piacere, per sfida o per dispiacere, ma io credo che sia proprio un esercizio di vitalità che fa sì che siccome le facce cambiano, così come cambiano i luoghi, è difficile che si faccia una replica di qualcosa che si è già fatto. Per quanto riguarda i racconti, che si fanno sempre guardando in faccia il pubblico (a differenza degli spettacoli che hanno la quarta parete, dove l'interpretazione ti fa staccare dal pubblico), io ho bisogno di parlare e quindi per me la variabile pubblico, assieme alla variabile luogo, sono sicuramente qualcosa che condiziona, ma condiziona di più per esempio la musica, il ritmo di quello che faccio, l'esecuzione, di solito non il contenuto. Per me è molto interessante cercare di non lavorare troppo e solo nella ricerca del consenso del pubblico, perché è chiaro che va bene che c'è anche quello, ma non puoi giudicare il tuo lavoro sulla base del consenso, se no ti fai una specie di parallelo dell'auditel, che poi ti frega perché non è detto che... per esempio questi racconti qua non sono accattivanti, e io soffro un po', perché sto muovendomi su cose che sono diverse da quelle che farei io. Di solito sono cose vive. Qui il pubblico è così lontano che io non sento nessuna reazione e anche dal pubblico si percepisce questa cosa: non sento ridere, non sento sospirare. Non so se le donne, a storie così maschili, sentono oppure si staccano, e allora la presenza è come un dialogo. Per questo i primi spettacoli li faccio sempre con tutto il pubblico visibile, molto vicino. Solo quando conosco bene lo spettacolo posso allontanarmi. A volte resto lì, ma aumentano gli spettatori, così i primi sono vicini come i primi delle prime volte, e gli ultimi sono lontani. Quei venti metri di distanza sono... tanti!
Hai fatto spettacoli diversi in luoghi diversi: mi parli della relazione con il luogo in cui viene fatto lo spettacolo e come il luogo può cambiare il linguaggio?
Cambia, in due modi. Da una parte si possono usare i luoghi come dei set cinematografici, quindi usare quello che ti offrono come scene naturali, come quando lavori in una stazione dei treni o su una diga oppure in un campo da rugby. Dall'altra si può lavorare nei luoghi e in questo modo invece di dover descrivere, per esempio invece di descrivere un campo da rugby, invece di evocare come faccio di solito, agisco dentro la cosa. Quindi devo asciugare tutta l'enfasi che di solito serve per creare il luogo, perchè so che ce l'ho già dietro. Devo essere più asciutto, più concreto, perché agisco dentro una cosa che gli altri già vedono. Invece è diversissimo il fatto di esplorare altri territori facendo teatro nelle scuole e in luoghi non teatrali. E' faticoso perchè in questi posti trovi la gente che di solito non va a teatro. E' un modo di togliersi la pigrizia: invece di essere solo scelti si va con il rischio di scegliere qualcuno.
Perché è così importante essere vicini al pubblico?
Lo dicono già i maestri del teatro, Stanislavskj e tutti gli altri: l'attenzione è un fatto di cerchi, cerchio piccolo cerchio medio e cerchio grande. E' inutile cercare di governare un cerchio grande di spettatori se sei capace al massimo di reggere il cerchio piccolo. Io adesso sono capace
di fare il teatro davanti a due o tremila persone. Ho imparato, all'inizio me la sarei fatta addosso. Poi invece scopri una regola dei grandi numeri, che mille persone si comportano come una mentre cento si comportano come cento. Quindi è più facile far ridere mille che cento, questo lo sanno tutti i grandi comici. Invece per quanto riguarda il mio lavoro, che non è fondato sul consenso e sulla risata ma anche su meccanismi come: "capiranno?", ho bisogno di sapere se interagire più o meno. Prima di fidarti a farlo davanti a mille, devi aver imparato gli stessi meccanismi che servono a una maestra a governare una classe di quaranta alunni invece che una di venti. Diventi bravo nel tempo: non credo che ci siano scorciatoie per arrivare prima a conquistare l'attenzione di un grande pubblico. Tutti i grandi predicatori prima sono stati parroci di campagna, più o meno.
E per quanto riguarda il linguaggio, il ritmo di cui parlavi prima, la sonorità delle parole?
Il linguaggio è musica. Quindi occorre sia imparare a suonare la musica già scritta, le poesie, i testi, la letteratura, sia imparare a improvvisare, cioè a suonare come nel jazz, e per me sono due musiche molto diverse ma mi piace l'idea di usarle tutte e due. Quando uso le parole degli altri cerco di suonare come nella musica classica, quando uso le mie posso improvvisare di più. Ma sempre se stai scrivendo, componendo o anche a volte suonando le parole degli altri bisogna ricordarsi di non usare troppe note e di non usare troppe parole, non è bella la musica se ha troppe note. Lo sai? Ti intendi di musica? Se un musicista, un compositore scrive con troppe note... se un jazzista mette dentro troppe robe è fumo negli occhi. La buona musica ha poche note e anche chi fa teatro deve imparare a usare meno parole possibile.
In che senso? Questo influisce sull'ascolto?
La poesia insegna a risparmiare sulle parole, la poesia è anche sintesi. Quando racconto tendo ad accorciare, e una volta che ho accorciato posso, per esempio, allungare un po' le pause, i tempi. Però puoi allungare un po' le pause e i tempi solo quando hai già tolto tutte le parole che dovevi togliere, perché per me la cosa essenziale è riuscire a dire una cosa nel modo più semplice e con meno parole possibili. Gli aggettivi, per esempio: meglio uno, perchè se si scrive si sopportano due aggettivi, se si parla no. I verbi a volte si possono alterare, le frasi a volte possono essere lasciate incomplete perché è così sott'inteso quello che viene dopo che basta un tuo gesto a completare la frase e spesso il teatro è questo, un'integrazione tra i gesti e le parole che porta lo spettatore alla cosa, perché viene chiamato a finire la frase. Una frase può iniziare con una parola e finire con un gesto. Anche chi scrive fa fatica ad immaginarselo se non conosce bene il linguaggio della scena, per cui spesso gli scrittori, non fidandosi degli attori, mettono troppe parole. Bisogna a volte toglierne qualcuna.
E per quanto riguarda la parte emozionale in quello che racconti o in quello che fai?
Bisogna non essere prigionieri delle emozioni che si vivono, perché bisogna provocarle negli altri, non viverle in maniera privata. Una certa corrispondenza c'è, ma non è vero che l'emozione che vivo io è quella che passa a loro; io devo provocare in loro l'emozione, ma il modo in cui ci arrivo potrebbe essere sia attraverso la stessa emozione che vivono loro, sia attraverso un'altra roba. Il modo in cui ciascuno riesce a fare questo è un po' il segreto di ogni attore. Io non so come fanno gli altri, e del mio modo non parlo mai.
Mi parli del tuo corpo in scena?
Ah! Fa ridere, no? Non ho un corpo eroico io, ho un corpo antico. "L'attore è un corpo antico fondato sul lavoro" ho detto una volta da qualche parte. Lavoro che ti fai addosso. Ti ricordi Gelmino Ottavini che dice che nel tempo tutte le doti che non hai sviluppato si seccano? E tu sei solo quello che hai imparato a fare? Vale anche per il corpo: il corpo impara a fare, a essere quello che tu gli hai insegnato a fare. Avresti voluto ballare, avresti voluto suonar la chitarra, avresti voluto essere... Il corpo nel tempo si ricorda: stare sulla scena è come nuotare, andare in bicicletta, per cui quando sei giovane devi imparare un movimento, studiarlo. Io imparavo anche a fare sequenze complicate di movimenti perché a teatro si studia anche questo, come nella danza. Adesso è come se non ci pensassi più, è come se lo lasciassi fare, mi devo un po' fidare e lui... Io-lui, non è che parlo con il mio corpo come se fosse un altro, ma so che ormai la gestualità , per il tipo di cose che faccio quando racconto, c'è e non la devo cercare più di tanto. Chiaro che se devo mettermi a fare un lavoro su qualcosa che è completamente nuovo, come un personaggio, non posso fidarmi che i gesti e che quindi il corpo parli nello stesso modo.
Anche se la parola è dominante, è importante la presenza del corpo?
Sì, perché la parola è sempre il prolungamento di un'azione fisica e l'attore... il corpo è la somma delle azioni fisiche che fai ma è anche la cosa più evidente. Non può contraddire quello che stai dicendo il corpo. Un corpo a sacco, un corpo abbandonato rende debole quello che stai cercando di dire con intensità . Allo stesso modo un corpo che si muove in maniera nervosa innervosisce. A volte ci sono dei gesti che mi scappano, io so che mi tocco la testa, o mi accorgo che ci sono dei gesti che non ho controllato, sono scappati. Succede, ce n'è un tot di gesti casuali, su alcuni lavoro per cambiarli; altri so che faranno parte dello stereotipo di come sono io per gli altri: ormai chi mi conosce di più sa che faccio certi gesti, certe cose, mi prendono anche in giro per questo.
Dici diverse volte, in Vajont, o in Parlamento chimico: "Un po' di teatro lo devo mettere per tenervi svegli". In che senso?
Scherzo sul fatto che una parte di quello che faccio è poco teatrale, però in realtà quando dico "metto un po' di teatro" intendo dire "metto un po' di spettacolo". So benissimo che tutto quello che faccio è teatro, se no non lo farei.
Qual è il tuo intento nel fare questo tipo di teatro di racconto?
Non lo so. Lo faccio, questo è importante.
Spesso il mantenimento dei ruoli sociali va a scapito delle relazioni o dei contenuti delle relazioni stesse. In questo senso il ruolo di narratore che assumi in scena può subire il pericolo di sovrastare i contenuti oppure si mette al servizio dei contenuti?
Il rischio c'è sempre, perché quando scopriamo che uno sa fare una cosa, siamo abituati a dargli molto potere. Chiunque si trovi in una posizione pubblica come la mia può abusare della sua funzione, e l'abuso della funzione del narratore è il demagogo. La demagogia è l'intortamento, cioè è subire il potere e il fascino di chi manipola gli eventi e riscrive le storie senza avere un senso etico di ciò. Quando svolgi un ruolo pubblico sei come un medico: sei capace di dare vita o morte, magari non alle persone, ma alle cose: devi stare attento all'uso che ne fai. Non credo che ci sia una ricetta per salvarsi o salvare quello che fai. Credo che ultimamente il rischio di fare una
puttanata ci sia e ci sarà sempre. Bisogna essere svegli, se ci si addormenta si fanno puttanate.
settembre 2003
Schio, Teatro Civico
a cura di Laura Lazzarin
Il sito di Marco Paolini: http://www.marcopaolini.it