Le interviste della settimana

Le interviste della settimana

Questa settimana PadovaCultura ti propone un incontro ravvicinato con due artisti, il pittore Giuseppe Toma e lo scultore Elio Armano, le cui opere sono esposte in questi giorni a Padova, nella Sala Samonà  della Banca d'Italia ("€œDal realismo al paesaggio antropomorfo"€ - Toma) e all'Oratorio di San Rocco ("€œEnigmi di terra e nell'€™aria"€ - Armano).

Giuseppe Toma ed Elio Armano sono due personaggi molto diversi tra loro, accomunati però da una intelligenza viva che fa sì che starli ad ascoltare sia estremamente interessante.

Curiosamente, poi, entrambi girano per Padova in bicicletta, entrambi sono legati in qualche modo all'€™architettura ed entrambi hanno un rapporto intenso, seppur diverso, con le culture dell'€™America Centrale.

Buona lettura.

Intervista a Giuseppe Toma

Intervista a Giuseppe Toma

Anche un passante distratto, camminando per via Roma, viene attratto dai quadri di Giuseppe Toma esposti nella Sala Samonà  della Banca d"€™Italia. Colpiscono immediatamente la qualità  della luce, la luminosità  dei colori e la sinuosità  delle architetture.

Tra i primi dipinti ad olio di Toma ci sono alcune scene di vita contadina ambientate in Puglia, il luogo dell'€™infanzia. I colori sono cupi: frutti, tronchi di ulivi, volti fieri di uomini e donne.

Tre contadini, 1970


Ora un"€™intensa atmosfera mediterranea pervade i suoi lavori: il mare, il cielo, le case bianche del Salento che diventano tridimensionali, vengono fuori dal quadro, ricordando le prospettive impossibili di Escher. Ma un"€™osservazione più attenta rivela che attraverso gli archi, le scale, le finestre, le case prendono vita assumendo sembianze umane: si guardano, si distendono, si stringono in un abbraccio... Rappresentano l"€™amore, l"€™amicizia, la gelosia.
Il desiderio e insieme la difficoltà  di stare insieme.

La solidarietà , 1983


Giuseppe Toma parla di tutto questo con sguardo ispirato. Dai suoi modi antichi traspare una grande gentilezza e una grande passione. «Se ho allievi? Certo, mi diverto ad insegnare!», risponde con tono vivace. Mi racconta che nella chiesa di Notre-Dame di Parigi ci sono delle bellissime vetrate colorate. In alcuni punti però, il pezzo di vetro è stato sostituito. Si vede subito che il colore è diverso da quello originale e stona. «Come mai il colore è diverso?» ha chiesto lui alla guida durante la visita. ͈ successo che il vetraio ha portato con sé nella tomba la formula chimica per ottenere quel colore. Nonostante tutti i tentativi, non è possibile creare di nuovo quel preciso colore.
«Quello che so, mi piace darlo agli altri», dice Toma. «Se la mia esperienza può essere utile, sono contento di trasmetterla. Non voglio essere come il vetraio di Notre-Dame».

Il lavoro, 1997



Mi racconta come si è avvicinato alla pittura?

Le origini si perdono nell'€™infanzia. Mi ricordo che avevo un"€™insegnante che aveva tentato il suicidio (per amore, dicevano alcuni) ed era rimasta senza gambe. Questa insegnante della scuola elementare veniva accompagnata in classe, la sedevano alla cattedra e lei aveva bisogno di uno che scrivesse bene alla lavagna, in stampatello, e di un altro che facesse i disegni. Ha scelto me per i disegni, perché si vede che aveva visto che avevo qualche qualità , e io facevo i disegni per tutti i ragazzi. Poi passavano i colleghi della maestra per salutarla, vedevano questi disegni e chiedevano: "€œChi l"€™ha fatto?"€. E allora mi chiamavano nelle altre classi: partivo dalla seconda e andavo nelle terze, nelle quarte e nelle quinte. Tutto il giorno ero arrampicato su questo sgabello a disegnare. In quinta elementare il preside ha chiamato mio padre e gli ha proposto per me una borsa di studio. Ha detto: "€œA questo ragazzo gli facciamo fare le scuole dell'€™arte"€. "€œNo, ma scherza!"€ ha detto mio padre, "€œfanno la fame, fanno la fame"€, e non ha accettato. Dopo io ho sempre coltivato questo amore per l"€™arte. Quand"€™ero ragazzino mia madre si tagliava i capelli e li vendeva in cambio di un pettinino, del sapone. Mi ricordo di avere tanto pregato mia madre: "€œMamma, mamma, i colori per piacere!"€. I pastelli, volevo. E una volta me li ha comprati. E con questi pastelli io disegnavo continuamente. Mi ricordo che una volta ho fatto una farfalla in movimento. Ho disegnato il corpo affusolato dell'€™insetto e ho disposto le ali come se fosse in movimento. Io non avevo mai visto un cartone animato: non avevo mai visto la televisione, non sapevo niente. Sono corso da mia madre: "€œMamma, mamma! Ho inventato il movimento!"€ "€œCos"€™hai inventato?"€ ... mia madre non capiva. Però quando sono arrivato a Padova (facevo l"€™ufficiale) ho scoperto i futuristi e mi sono detto: "€œCome mai io, piccolino, lontano, in un paese del Sud, percepivo questa cosa?"€. Io la sentivo come mia, questa invenzione. Quando ho visto i cartoni animati di Walt Disney ho detto: "€œE io che pensavo di essere l"€™unico..."€ Forse c"€™era in me questo desiderio di tentare nuovi approcci col disegno.
Questi sono gli inizi. Poi ho cominciato a dipingere qualche ritratto, di qualche fidanzata, di qualche parente... mi ricordo di un volto di Cristo, che non so dove sia andato a finire. Poi sono arrivato alla nostalgia di un paese: a riprodurre le cose mie, del passato (ero a Padova ormai). Chiudevo gli occhi e immaginavo il mio luogo natio. E poi sono arrivato a questo.

Qual è la sua fonte di ispirazione?

Alla base c"€™è un viaggio nell'€™America Centrale. Qui ho scoperto la semplicità . In questi posti avevano una grande solidarietà  tra di loro: uno pescava, e pescava per tutto il villaggio. Era una cosa molto bella. Pescava, ma lasciava andare il pesciolino e prendeva il pesce più grosso: "€œEh, il pesciolino crescerà , dopo"€. Mi ha insegnato molto: nella nostra società  consumistica noi mangiamo il pesciolino appena nato, ce ne approfittiamo. Quando sono tornato ho visto che noi europei, e anche gli americani, siamo inseriti in un contesto quasi militare: siamo inquadrati in fila verso il consumismo, come militari assoldati per consumare. Dentro di noi però c"€™è ancora l"€™amore, la voglia di fratellanza, di amicizia, di dialogo. Questa cosa è in noi, nonostante il fatto che siamo irreggimentati. E allora ho cominciato a disegnare l"€™individuo, e lo facevo rigido, lo squadravo con linee rette. Poi ricavavo dalle parti anatomiche gli archi. L"€™arco è il pensiero positivo, la voglia d"€™amare. Quindi nel corpo umano ricavavo queste aperture, quasi ad invitare me stesso e gli altri a riscoprirle. Ho visto che attraverso questo segno potevo raccontare tutto dell'€™uomo. Dalla religione alla letteratura... posso parlare di qualsiasi cosa attraverso un bel paesaggio, un castello. Ma all'€™interno, oltre alla visione architettonica, il quadro contiene la voce dell'€™autore che cerca di dialogare con il pubblico. Mi sembra che questo sia percepito, specie dalle persone sensibili. Tutti i miei quadri sono un intreccio di sogno e realtà . Per esempio, il quadro delle "€œGemelle"€ l"€™ho fatto prima dell'€™11 settembre. Ho detto: faccio queste due ragazze di schiena, e gioco sulla gonna, sui porticati. Quando l"€™ho fatto non pensavo alle torri gemelle. Dopo ho riscoperto questo disegno ed è venuto fuori un altro messaggio, attuale, che dà  il senso della pace ma anche del panico. Si può pensare che le due ragazze stiano giocando, correndo o scappando: rimane questo dubbio. In primo piano ci sono dei piedi, che sembrano quasi recisi: non hanno le basi e forse cadranno. Sullo sfondo ci sono due gabbiani, ma noi sappiamo che sono stati due aerei.. insomma è un intreccio di sogno e realtà . Quando io metto una donna china su un individuo che è steso per terra, e la chiamo "€œSolidarietà "€, essa rappresenta la religione ed è un invito al dialogo. L"€™uomo deve riscoprire il dialogo, deve stare con l"€™Altro. Io sono qui di fronte a Lei: devo apprendere da Lei il meglio che ha Lei. E Lei deve apprendere da me il meglio che ho. ͈ dall'€™incontro che c"€™è arricchimento ed evoluzione. Questo è il mio concetto della vita, e tento di metterlo in risalto attraverso i colori, le forme. Da quello che mi sembra, qualcosa ho raggiunto.

Mi parla del suo rapporto col pubblico?

Il pubblico reagisce molto positivamente. Ho visto anche uno spagnolo, un giapponese, che mi hanno detto: "€œLo sa che la sua pittura è una cosa universale?"€. Cioè è comprensibile per tutti gli abitanti della terra, non si rivolge solo a un pubblico mediterraneo, anche se attinge alla storia del mediterraneo. Il messaggio, inserito in questo paesaggio che poi è il corpo umano, è universale. L"€™amore, la solidarietà , lo stare insieme sono concetti universali. Ognuno dei visitatori riesce a percepire una propria emozione e molti visitatori nel libro [guest book] hanno scritto "€œgrazie per le emozioni"€.

Qual è il suo metodo di lavoro?

La tecnica è quella dell'€™olio: con l"€™olio posso fare tutte le trasparenze possibili. I miei quadri sono buoni dal punto di vista coloristico. Alcuni critici hanno parlato di "€œcolore raffinato"€. Ma non è il colore... in un quadro il colore conta il 10-20 per cento, ma più di tutto è importante l"€™impaginazione delle masse. Il quadro dev"€™essere un tutt"€™uno tra forma, impaginazione e colore. Solo così si ottiene un risultato gradevole. Perfino nell'€™astratto penso che sia così. E poi penso che l"€™astratto non esista. L"€™astratto è una cosa indefinita: quando io poggio la penna su un foglio e faccio un puntino, è già  qualcosa di concreto. Una linea è già  concreta, una chiazza di colore è già  concreta. Che poi il pensiero possa andare al di là , nell'€™infinito: bene, se riesci ad accompagnare nell'€™infinito!

Che consigli ha per un giovane pittore?

Nella mia scuola elementare si cominciava con le aste. Allora noi ragazzini non sapevamo tenere in mano una penna. C"€™erano pennino ed inchiostro, e nessuno aveva in casa pennino ed inchiostro. E a scuola ti dicevano di fare le aste: dentro il rigo dovevamo fare dei segni dritti, ed era molto difficile. Allora, prima di tutto è importante la manualità . Cosa vuol dire? Disegnare, disegnare e disegnare. Le cose più futili: il fiore, la foglia, la foglia di una rosa e la foglia di un ulivo, poi le mani, la bocca, il sorriso... non è facile, ma un po"€™ alla volta la mano e l"€™occhio di chi disegna riescono a vedere le luci e le ombre. Alla base ci devono essere una buona idea e un buon disegno. Poi successivamente si aggiunge il colore. Il giovane poi non deve pensare di diventare ricco. Io ho fatto l"€™ufficiale, l"€™impiegato di banca, e nel tempo libero, anziché "€œfare le vasche"€, come si dice qui a Padova, mi ritiravo in studio a dipingere, ogni giorno. Perché mi piaceva, certamente. Questo ha pagato nel tempo. Anche Vittorio Alfieri disse "€œVolli, volli, fortissimamente volli"€: a furia di insistere, qualcosa salta fuori. E"€™ basilare avere, non dico delle qualità , ma delle propensioni. Se ti senti portato, poi i risultati vengono. Se c"€™è amore saltano fuori anche i baci.

Laura Lazzarin

Intervista a Elio Armano

Intervista a Elio Armano

Intervista a Elio Armano

Ma Lei quante interviste ha fatto finora?» mi chiede lo scultore Elio Armano, raddrizzandosi sulla sedia di fronte a me. Siamo in un bar, seduti a un tavolino all'€™aperto, in un pomeriggio di settembre un po"€™ afoso e con il cielo velato, di quelli che qui a Padova conosciamo bene.
 

Elegante e cortese, Armano è stupito del fatto che non studio storia dell'€™arte. Quando gli racconto del mio interesse per l"€™antropologia, chiede se davvero mi diverte ascoltare la gente. Se mi soddisfa.

͈ molto interessante ascoltare Armano: parla della sua esperienza artistica e della sua concezione di scultura, e racconta del suo rapporto con la creta e con il pubblico.

«Insegna, ha allievi?» gli domando alla fine, mentre mi accompagna a vedere il suo oggetto-scultura posto in piazza Garibaldi, un pezzo di calcestruzzo che risponde alla sua idea di arte civile: un"€™arte senza pretese, disseminata nell'€™ambiente urbano con lo scopo di "€œrendere più vivibile, più gradevole, più civile il mondo"€.
«In un mondo come questo, di stragi, di guerra, di povertà ... come si fa ad insegnare qualcosa!» esclama. ChissÍ  se il suo maestro Alberto Viani ha pensato la stessa cosa, quando ha dato al giovane Armano le chiavi dell'€™Accademia.

Quando la ragazza del bar è venuta a prendere le ordinazioni, Armano ha chiesto un Rabarbaro Zucca. La ragazza è rimasta lì dubbiosa. «E"€™ un liquore», ha spiegato Armano. E poi, con una malinconia appena percepibile, ha confermato come tra sè: «Non ce l"€™avete. ͈ che parlando di Viani mi è venuto in mente il rabarbaro».
Decisamente, mi piace ascoltare le persone.

Mi racconta il suo percorso artistico? Come è arrivato alla scultura?

Come sono arrivato alla scultura? Io ho 59 anni ma non è che la scultura, come qualcuno ha raccontato sulle cronache locali, io l"€™abbia scoperta adesso. La scultura mi ha sempre accompagnato, non dico da bambino, ma quasi. Sono sempre stato attratto dal disegno e ho sempre disegnato dando molta importanza ai contorni delle cose. Il disegno degli scultori è molto diverso dal disegno dei pittori. Quindi ho sempre avuto interesse per un disegno teso a riappropriarsi del volume delle cose. Ma al di là  di questa preistoria ormai troppo lontana, ho frequentato a Padova l"€™istituto d"€™arte, proprio nella sezione di scultura, dove eravamo pochissimi allievi. Tutti facevano affresco, oreficeria... la sezione di scultura era frequentata da pochi ma buoni. Avevamo un grande laboratorio a disposizione di tre o quattro allievi. ͈ stata un"€™esperienza precoce che si accompagnava ad una grande curiosità  intellettuale, per le manifestazioni artistiche in generale. Dall'€™istituto d"€™arte ho proseguito gli studi all'€™Accademia di Belle Arti di Venezia, dove ho avuto la fortuna di avere come maestro Alberto Viani, che è stato uno dei più grandi scultori italiani. Sono andato all'€™Accademia dopo un anno, o forse due, di esperienza da privatista, perché ero piuttosto vivace politicamente: avevo contestato l"€™autoritarismo dell'€™istituto d"€™arte di allora. Quindi ho studiato da solo insieme a Roberto Cremesini e a Girolamo Zampieri, che è uno dei dirigenti dei Musei Civici. Nella pausa tra l"€™istituto d"€™arte e l"€™Accademia ho fatto anche tanti lavori strani per mantenermi, perché sono rimasto orfano a 14 anni, ma ho riempito queste molteplici attività  con una grande curiosità  intellettuale: non mi è mai sfuggita nessuna mostra, sfogliavo tutti i libri che riguardavano la scultura e le arti in generale. Quando sono arrivato all'€™Accademia, fin dal primo momento Viani, vedendo il pacco di disegni che avevo con me, mi ha dato carta bianca. Avevo addirittura le chiavi per accedere all'€™Accademia anche di pomeriggio. Poi ho fatto altre cose, ma la scultura è stato il mio primo amore, che non ho scordato mai e che adesso ho ripreso alla grande e in modo totale, anche perché non credo che mi sia dato di vivere più di 120 anni...

E il rapporto tra la scultura e le altre cose che ha fatto in questi ultimi anni?

Dice la politica? Mi sono occupato di politica, però non vorrei che parlasse di questo, perché se no si finisce sempre di parlare di Armano come un politico che fa lo scultore nel tempo libero. La mia frequentazione dell'€™Accademia ha coinciso con il famoso Sessantotto, e lì sono diventato il leader della situazione. Nel "€™69 paralizzammo la Biennale d"€™Arte di Venezia. Anziché seguire il percorso dell'€™insegnamento e diventare assistente all'€™Accademia, cosa che mi sarebbe stata possibile, visto che ero il più vivace ed anche quello che prendeva i migliori voti, io ho preferito per coerenza prendere un"€™altra strada e quindi prima a metà  tempo, poi a tempo pieno sono stato per un decennio funzionario e dirigente dell'€™allora Partito Comunista Italiano. Però presto mi sono dotato di uno studio che avevo in una casa malridotta e abbandonata del centro storico, e l"€™ho riempito di tutte le cose che avevo a Venezia. L"€™atelier dell'€™Accademia era il mio atelier personale, pieno di sculture e di cose anche grandi... dopo c"€™è stato dell'€™altro, ma meglio che parliamo di scultura.

Qual è il suo rapporto con la tradizione? Come si fa ad elaborare un linguaggio personale?

Non mi sono mai posto questo problema e credo di essere fortunato, nel senso che io conosco tanti che ossessivamente si pongono il problema di scavarsi una loro nicchia riconoscibile dal punto di vista stilistico: una cifra interpretativa, della quale finiscono per diventare prigionieri. Io negli anni della formazione avevo delle idee abbastanza chiare. Non mi interessava la cosiddetta "€œtradizione"€. Essendo onnivoro, ho sempre amato fin da subito le cosiddette "€œavanguardie"€. Dico cosiddette, perché devo ancora capire con che parametri si misura ciò che è retro e ciò che è avanti. Per esempio avevo un amore non comune sia per le manifestazioni della scultura e dell'€™arte cosiddetta "€œprimitiva"€, africana, precolombiana... e insieme per Henry Moore e per tutti i grandi scultori dell'€™inizio del secolo. Come poi io sia arrivato a fare le cose che faccio adesso, non lo so. Anche perché ho fatto tante cose diverse: negli anni "€™60 ho anche lavorato con la gomma piuma dipinta. Più che delle sculture erano degli eventi teatrali che si chiamavano happening. Comunque quella è stata una parentesi. Ho sempre pensato di fare cose di grandi dimensioni, da collocare nell'€™ambiente urbano. Non ho mai pensato alla scultura come a qualcosa di piccolo. Anche perché la scultura piccola in realtà  diventa una sorta di soprammobile, un ninnolo, mentre la scultura dovrebbe avere una dimensione civile: dovrebbe essere messa in mezzo all'€™architettura, nei centri urbani, nelle strade, magari negli ambienti squallidi delle periferie, senza pretese artistiche.

E nel caso delle ultime cose che ha esposto?

Queste sono cose che fanno parte di un discorso che porto avanti ormai da qualche anno e che si è sviluppato usando la creta. Perché fino a qualche tempo fa non avevo più lo studio, e allora mi tornava comodo lavorare a cose piccole che facevo con la creta. Sono cose che sono nate prima come piccoli plastici, "€œpaesaggi in scultura"€, tra virgolette. Erano piccoli plastici di realtà  collinari, oppure mare ed isole, che declinavano il mio amore per i paesaggi dei colli Euganei ma anche per quelli dell'€™Istria. Pian piano queste cose sono diventate autonome: sono diventate degli oggetti a forma di trangolo striato, scavato e segnato. Poi ho cominciato a montarle insieme e quindi sono diventate antenne, parabole, obelischi, frammenti vari che ho composto in casse riempite di sabbia. Queste cose sono nate in modo spontaneo, senza che mi ponessi grandi problemi di concezione. E sono nate anche e soprattutto dal disegno: da anni riempio di disegni decine di libretti che porto con me. ͈ una cosa che ho imparato a fare quando la mia vita era piena di riunioni. Ho un inventario di cose da mettere insieme, da fare, con il quale mi diverto. Senza pormi l"€™obiettivo di essere me stesso, di avere una mia fisionomia, credo di avere raggiunto anche questo obiettivo, ma inconsapevolmente: mettendo insieme i vecchi amori per la scultura cosiddetta delle avanguardie; mettendo insieme in una digestione inconsapevole il romanico, l"€™incaico, ma anche i pezzi degli imballaggi buttati via... Non c"€™è nessun segreto dietro: c"€™è solo la voglia, la felicità , la mente libera.

E il passaggio dalla creazione all'€™allestimento?

Ci sono alcune cose fatte a mo"€™ di antenna e come i vecchi pali della luce; dall'€™altra parte cose messe per terra, come una sorta di archeologia inventata. Nel mio studio metto sempre le cose per terra, e allora sono nate le scatole. Il mio amico architetto che mi ha aiutato nell'€™allestimento ha pensato giustamente di distinguere queste cose. Anche il titolo "€œEnigmi di terra e nell'€™aria"€ della mostra mi imponeva un ragionamento di questo genere: enigmi nell'€™aria, volanti e sospesi, ed enigmi di terra, affioranti. Tenga conto che prima di questa mostra il museo archeologico di Este mi aveva dato l"€™occasione di mettere i miei piccoli paesaggi in scultura ed altri pezzi di terracotta insieme con gli altri oggetti del museo, anzi al centro delle sale, come un colloquio tra il passato e il presente. Sono successe anche cose curiose: all'€™inaugurazione c"€™era chi si chiedeva: "€œma quali sono le cose di Armano e quali quelle del museo?"€. Chiaramente erano i meno acculturati, ma non solo, a porsi questo problema. Ma questo vuol dire che le distanze tra il passato remotissimo e il presente non sono così grandi: ci sono delle costanti, nel mondo della forma ma anche nel mondo degli atteggiamenti di chi guarda le cose. Sono gli spettatori che fanno vivere le forme. Tutto è legato al ricorso a un materiale elementare, che in dialetto si chiama tera crea. La parola "€œtera crea"€ è simpatica perché "€œcrea"€ vuol dire molle, ma vuol dire anche "€œcreare"€. La terra molle è la terra che ti dà  capacità  creative, espressive.

Ha parlato dello spettatore che dà  vita alle forme. Qual è il rapporto con il pubblico?

Gli spettatori sono una cosa strana. Non credo che esista un campionario dello spettatore. Ci sono degli spettatori che hanno gli attrezzi per comprendere il messaggio, gli antefatti. Ma spesso costoro sono anche pericolosi perché sono quelli che hanno visto tutto e quindi non vedono più niente. C"€™è una sorta di atrofia culturale. Ci sono quelli che invece guardano le cose a mente sgombra, anche senza avere l"€™attrezzatura culturale, e magari danno più soddisfazione di altri. Però non mi sono mai occupato di capire... in realtà  io sono, come tutti quelli che si occupano di queste cose, un grande egoista. Sono affari dello spettatore. Ma al di là  di questa battuta sull"€™egoismo, il problema vero è che noi viviamo in un mondo dove vi sono luoghi deputati per l"€™arte, per la cultura. Fuori di essi c"€™è il cosiddetto mondo normale, dove scattano meccanismi che hanno antefatti culturali precisi. Penso ad esempio alla pubblicità . Non ci sarebbe né pubblicità , né architettura, né design moderno, che tutti quanti comprendono tranquillamente, senza le avanguardie, senza Picasso. Ma se tu dici: "€œquesta cosa è un oggetto d"€™arte"€, e la metti in un luogo dedicato, allora scatta un meccanismo di rifiuto. Se invece si potessero mettere certi oggetti, senza pretesa di chiamarli arte, nell'€™ambiente urbano, la cosa sarebbe molto più semplice. E in fin dei conti forse era così anche nel passato, prima che si arrivasse alla figura romantica dell'€™artista. L"€™artista non è né più né meno di un muratore. Anche gli architetti: a volte sono meno di muratori.

͈ in questo senso che prima mi parlava di funzione civile?

Sì, credo che funzione civile non significhi funzione propagandistica e ideologica dell'€™arte. Esempi deleteri sono i monumenti retorici e artificiosi della prima e della seconda guerra mondiale nelle città  dell'€™occidente e quelli del mondo ex-sovietico. Quando parlo di arte tra virgolette "€œcivile"€ parlo di interventi volti a rendere più vivibile, più gradevole, più civile il mondo. Significa costruire un giardino, sistemare una terrazza, fare di un angolo di una periferia un luogo dove la gente possa incontrarsi. In piazza Garibaldi c"€™è un mio pezzo di trenta quintali, alto quasi tre metri, largo un metro: un oggetto-scultura da spazi urbani, con un buco attraverso cui si può guardare la prospettiva della strada. ͈ un pezzo di calcestruzzo con una serie di segni, una specie parodia del linguaggio geroglifico. In realtà  questa cosa è un cippo, un marcaspazi, nient"€™altro. Le città  del Nord Europa e degli Stati Uniti d"€™America ospitano da anni proposte del genere: sono un esempio di intervento civile, senza pretese e senza ideologie.

Ma dov"€™è? Non l"€™ho notato...

͈ davanti al negozio di dischi. Forse si perde perché anche se è grande e pesantissimo, se fosse stato accompagnato da un altro pezzo sarebbe stato meglio: avrebbero parlato tra loro. Ma il bello è che, se tu aspetti, qualcuno va a sedersi, un cane ci fa la pipì... insomma ha una sua vita. E la cosa più divertente è che nessuno si pone il problema di chiedere che cos"€™è e a cosa serve. Quando l"€™abbiamo portato con un gru alle otto di mattina nessuno si è fatto problemi, appunto perché fortunatamente nessuno ha parlato di arte. Lei scriverà  un libro su internet...

Cosa direbbe a un giovane che oggi vuole fare lo scultore?

Io non lo so proprio, anche perché, vede, nessuno ha la ricetta in tasca e non credo si possa più parlare di scultura o di pittura. Ma questo non da adesso, almeno da quasi un secolo. Non ci sono confini: da quando è nato il cinema, da quando la fotografia è un veicolo importantissimo di comunicazione, da quando c"€™è il computer, c"€™è internet... come si fa a parlare di categorie che sono nate in altri contesti? Comunemente si continua ad intendere la scultura ciò che ha un volume, che ha un peso, però non è sempre vero, perché l"€™americano Calder, che è l"€™equivalente in scultura dell'€™allegria e della giocosità  dello spagnolo Mirò, ha dimostrato che la scultura non è necessariamente qualcosa di immobile e di pesante. E allora la scultura è anche stendere un drappo, intervenire su un luogo naturale... Siamo più sul campo dell'€™architettura, della scenografia. L"€™architettura moderna, razionalista, ha giustamente bandito la decorazione pittorica e scultorea. Dopo alcuni decenni c"€™è la situazione paradossale in cui gli architetti sono diventati scultori: se lei prende l"€™ultima biennale di architettura di Venezia, che si chiama Metamorph, metamorfosi, trova un inventario di forme di architettura che sono in realtà  delle sculture. Sono il rifiuto del razionalismo per riabbracciare la fantasia, l"€™organicismo. Valga per tutti l"€™esempio del Guggenheim di Bilbao, che paradossalmente potrebbe essere spiegato come un pezzo della figura di Boccioni, ingrandito e fatto diventare un"€™architettura. Quindi, per risponderle, la scultura è tale solo se uno dice: "€œio voglio un pezzo di bronzo, a tre dimensioni..."€. Ma è scultura anche un"€™automobile, un aeroplano, un"€™architettura. E non è appannaggio dei cosiddetti scultori, che non hanno più una figura sociale precisa, neanche nei cimiteri. ͈ finito il tempo degli Etruschi.
 

Laura Lazzarin

 

Una, due, tante Serate per osservare il cielo

Una, due, tante Serate per osservare il cielo

Una, due, tante Serate per osservare il cielo


Il Gruppo astrofili di Padova organizza le Serate pubbliche di Astronomia, una serie di incontri per gli appassionati del cielo stellato. Tutti possono partecipare: non è richiesta una particolare preparazione, ma solo interesse per questa affascinante materia!


Da ottobre a giugno, ogni 1° e 3° venerdì del mese
Planetario di Padova - via Cornaro 1 b

Le Serate di Astronomia iniziano alle ore 21:00 con una conferenza e proiezione di immagini a tema sempre diverso: si va dalla lezione di planetario in cui si forniscono gli elementi di base per orientarsi nel cielo fino alla teoria della relatività . Le conferenze sono tenute da soci esperti del Gruppo Astrofili.

Successivamente si sale in cupola e si guardano le stelle con i telescopi dell'Osservatorio. L'osservazione è possibile solo con cielo sereno. Gli oggetti celesti più "gettonati" sono la Luna, Saturno, Giove, l'ammasso globulare di Ercole, la galassia di Andromeda...

Al termine di ogni conferenza è possibile fare domande al relatore, aprendo un
dibattito che a volte risulta più interessante della stessa lezione.

Calendario delle serate

Informazioni
Quota di iscrizione 3,00 euro a serata (si versa al momento
dell'ingresso).
Ingresso gratuito per i soci del Gruppo Astrofili.

Dato lo spazio limitato è richiesta la prenotazione al n. +39 049
8022606.

Per ulteriori informazioni consultare il sito del Gruppo Astrofili di Padova:
http://www.astrofilipadova.it

Il Grigio di Giorgio Gaber

Il Grigio di Giorgio Gaber

Il Grigio è uno degli spettacoli più applauditi di Giorgio Gaber, oltre che un testo straordinario, parte ormai della storia del nostro teatro. E anche senza la presenza di una sola canzone, lo stesso Gaber lo considerava il suo spettacolo più musicale.

Il Grigio
di Giorgio Gaber e Sandro Luporini
regia Serena Sinigaglia
scene Giorgio Gaber e Daniele Spisa, musiche Carlo Cialdo Capelli
luci Claudio de Pace
con Fausto Russo Alesi
e con dario Grandini (pianoforte) e Stefano Bardella(percussioni)

Nato nel 1988 dal sodalizio artistico con Sandro Luporini, Il Grigio è la storia di un uomo che decide di ritirarsi da tutto, dalla melmosa contemporaneità  dove non esistono più i nemici (e dunque nemmeno gli amici) per vivere in totale distacco dal mondo. Ben presto però il protagonista si accorge di non essere solo: un topo, il Grigio del titolo, lo spia. Falliti i tentativi di catturare l'intruso con metodi tradizionali, egli comincia un lungo duello con l'invisibile nemico. E in questa battaglia si trova a dover riflettere su tutte le sue scelte affettive e morali.
In un crescendo in cui si alternano una folle "tensione agonistica", sarcastica lucidità , momenti di abbandono e di irresistibile comicità , il protagonista supera il suo egocentrismo iniziale per raggiungere i toni di pietas laica su cui si conclude la storia de Il Grigio: "bisognerebbe essere capaci di trovare la consapevolezza e l'amore che dovrebbe avere un Dio che guarda".

La scelta di un giovane attore, Fausto Russo Alesi, vincitore del Premio della Critica Teatrale e del Premio Ubu 2002, e di una regista, altrettanto giovane, Serena Sinigaglia, risponde alla volontà  di confrontarsi con una sensibilità  nuova nel mettere in scena questo testo, che non è un ricordo, ma vive oltre il suo compianto autore.
Accanto a Fausto Russo Alesi, gli stessi musicisti che accompagnarono Gaber: Carlo Cialdo Capelli e Corrado Dado Sezzi. Le scene sono di Giorgio Gaber e Daniele Spisa.

Notturni d'Arte 2004

Notturni d'Arte 2004

Notturni d'Arte 2004

Torna l'ormai tradizionale appuntamento estivo dell'Assessorato alla Cultura del Comune di Padova, che propone alcuni percorsi artistici inediti o poco conosciuti, in cui la visita ai monumenti artistici è abbinata a spettacoli teatrali e musicali.
Il titolo di quest'anno è "Padova tra '800 e '900".

28 luglio - 4 settembre ore 21:00
Ingresso libero
programma

La XVII edizione dei Notturni d'Arte è dedicata all'evoluzione della città  tra '800 e '900, con particolare riferimento a quegli interventi urbanistici che hanno profondamente modificato il tessuto edilizio, sociale ed estetico della città .

L'iniziativa, che di anno in anno riscuote consensi sempre più ampi, propone la valorizzazione del patrimonio storico e artistico cittadino, offrendo l'opportunità  alle persone presenti in città  nel periodo estivo di seguire alcuni percorsi artistici a volte inediti e poco conosciuti, abbinando la visita ai monumenti artistici con spettacoli teatrali e musicali.

A cominciare dalla visita ad alcuni dei più importanti monumenti dell'800, quali lo Stabilimento Pedrocchi, i giardini Treves, il Teatro Verdi, il Museo del Risorgimento recentemente inaugurato, verranno illustrati e ripercorsi nella memoria i cambiamenti più o meno radicali avvenuti nel tempo, quali il tombinamento dei canali, la costruzione delle nuove sedi del potere politico, economico e culturale, i nuovi insediamenti della prima periferia, fino ad arrivare ai progetti edilizi di grandi architetti quali Giulio Brunetta, Giò Ponti, Daniele Calabi, Gino Valle.

Parallelamente verrà  dato ampio spazio anche all'evoluzione della città  dal punto di vista culturale, sociale e di costume, con momenti di spettacolo musicale e teatrale ispirati alle atmosfere e alle tradizioni della nostra storia locale.


Informazioni
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Intervista ad Antonia Arslan

Intervista ad Antonia Arslan

L'autrice de "La Masseria delle Allodole", emozionante romanzo sul genocidio degli armeni, finalista al premio Campiello 2004, parla in quest'intervista dell'importanza della memoria storica e degli affetti familiari, e del ruolo, spesso trascurato, delle donne nella storia e in letteratura.

Il primo merito del suo romanzo è di aver fatto conoscere una realtà  storica che i più ignoravano. Confesso che, prima di leggere il suo romanzo, non sapevo nulla sul genocidio degli armeni. Immagino che sia così per molte persone. Me ne vuol parlare?

Sì, vedi, era in qualche modo un atto di giustizia dovuto, però io non ho cominciato a scrivere pensando a quello perchè un romanzo lo scrivi perchè è qualcosa di più forte di te, e io l'ho detto forse un po' poeticamente "volevano essere ascoltati", era come sentire delle voci in un certo senso, senza esagerazioni e senza dire stupidaggini, così delle voci interne, qualche cosa che ti diceva "questo ci è successo, questo voglio che sia raccontato", altrimenti scrivevo libri di critica o di saggistica come ne ho scritti tanti. Anche se tanti anni sono passati, in fondo il genocidio è un male che non ha riscatto finchè non viene chiuso perchè in qualche modo la gente lo sa e lo mette in elenco ed è stato domandato un perdono, ecco.

Il silenzio, talvolta la negazione stessa del fatto che ci sia stata una violazione dei diritti umani, quanto male può fare alle persone che sono sopravvissute?

Fa tanto male. Guarda, io sono molto amica di due psichiatri armeno-americani e tu sai che negli Stati Uniti c'è la più grande comunità in diaspora degli armeni - Stati Uniti e Francia sono le due pi` grandi comunità di armeni in diaspora - e lì loro hanno avuto modo di vedere su molte persone questi effetti. Ora, tu pensa, uno studioso ebreo, Finkelkraut, ha detto "gli armeni dovrebbero diventare pazzi, pensate cosa succederebbe a noi se veramente fosse negata l'esistenza della Shoa". Immaginati una persona che è sopravvissuta a questo inferno e che si vede semplicemente costretta a non parlarne perchè nessuno le crede... e in più un grande stato come la Turchia, una grande nazione, non accetta di fare di conti con il proprio passato, che naturalmente non è responsabilità dei governanti attuali, ma essi devono semplicemente fare i conti con quel passato. Se il Papa chiede perdono, se la Germania chiede perdono, il Papa per qualche eccesso del passato, la Germania per la Shoa, non vedo perchè non lo debba fare anche la Turchia. Quindi è gente [i sopravissuti al genocidio armeno, nda] che ha delle profonde ferite intime, interiori, e quindi delle profonde nevrosi.

Perchè si parla molto del genocidio degli ebrei e non di altre realtà che sono avvenute?

Perchè il genocidio degli ebrei è stato commesso da una nazione che poi è stata clamorosamente sconfitta. Nel momento della sconfitta si sono aperti i campi di concentramento, è stato divulgato tutto, tutti sono venuti a saperlo e poi gli ebrei giustamente non hanno permesso che venisse dimenticato, come cerchiamo di fare noi. Ma mentre per loro c'è stata la nascita dello stato d'Israele, quindi una realtà statuale che esisteva, l'Armenia aveva sì uno stato ma era uno degli stati dell'Unione Sovietica e quindi impossibilitato a muoversi per conto proprio. C'è poi il negazionismo della Turchia e il comodo silenzio degli stati occidentali.

I giovani, che rappresentano il futuro, e la memoria storica: quali forme, quali mezzi usare per far incontrare questi due mondi?

L'onestà, e la poca retorica. Purtroppo, no purtroppo, giustamente, i giovani sono sensibili quando si sborda sulla retorica, quelle frasi fatte, quelle celebrazioni un po' inutili, un po' tronfie, in cui gente a cui non gliene importa niente dice parole... Secondo me il modo per raggiungere i giovani, secondo la mia esperienza, una buona esperienza, di tanti anni, e non solo italiana - l'anno scorso ho fatto un ciclo di lezioni di storia del Novecento a un gruppo di studenti americani del Minnesota che me l'hanno chiesto, quindi evidentemente la curiosità c'era - è quello di dare un quadro storico serio, perchè non devi stare solo sul romanticume che dopo non dai neanche la data in cui è successo un fatto, un quadro storico serio, essenziale, col minimo dei dati possibili però corretti, e poi testimonianze, vita vissuta, bambini che hanno vissuto una cosa, adulti, grandi... Non è che il ragazzo giovane vuol sentire solo di giovani, vuol sentire della vita perchè è quella che gli manca ancora, è quella che ha davanti. Vuol sentire delle persone che accettano la loro vita, che sanno di essere più avanti su quella strada e che trasmettono quello che hanno dentro, con onestà, con serietà, con allegria, senza prendersi troppo sul serio, perchè io credo che uno dei danni della nostra epoca è che tutti si prendono orrendamente sul serio.

Prima parlava di voci che chiedevano di essere ascoltate. Si sente molto forte nel suo libro l'importanza degli affetti familiari. Lei vede la famiglia come un messaggio di speranza?

Senz'altro. La famiglia viene tante volte data per morta, no?, o all'interno di essa i rapporti possono essere tesissimi, però ricordiamoci sempre che nessuno pretende che genitori e figli siano perfetti, giusto? Semplicemente la struttura genetica ha fatto sì che a quei genitori siano capitati quei figli. È per tutti e due una scommessa, genitori e figli, e tutti noi perdoniamo delle cose ai nostri genitori, come loro devono perdonare a noi come figli, non è vero? All'interno di una famiglia, se si vuole capirla con un pizzico di serenità , ci sono delle potenti forze positive che chiedono solo di essere espresse.

Forse per questo motivo il prologo del libro m'è parso così bello. Alla presentazione del suo romanzo in Sala Giganti il pubblico ha imposto che lei lo leggesse. Se n'è stupita?

No, perché è l'unico pezzo del libro che era già  conosciuto. Diverse persone che sono venute lo conoscevano perché l'avevano letto quando era stato pubblicato con le edizioni Messaggero. È dedicato a Padova, al Santo di Padova, ed è forse un'angolatura un po' nuova, il Santo visto da una bambina e da una bambina che non è del tutto padovana, però che ha il nome del Santo. E poi è un pezzo che tutto sommato incontra molto, forse anche per quella chiusura in chiave di morte, vedere la morte come un passaggio, un passaggio che non conosciamo, di cui abbiamo paura, ma in fondo come dice Dino Buzzati "la morte è cosa semplice e conforme a natura".

Vuole parlarmi del suo rapporto con nonno Yerwant?

Oh sì, volentieri. Io il nonno lo conoscevo poco perchè avevo dei cugini più grandi di me e mi portavano di più dalla nonna, che aveva il mio nome. Però a nove anni mi sono ammalata di una malattia misteriosa, che non hanno mai capito cosa fosse, era una specie di febbre che mi consumava, veniva ogni tanto e mi consumava. Mi hanno curata con la penicillina, le prime penicilline, i primi antibiotici. Quando sono guarita però ero debolissima, e il nonno disse a mio padre: "Tu non sei capace di governare questa bambina, che è troppo indipendente, me la prendo io" e mi ha portata un mese in montagna e in quel mese siamo diventati proprio amici.


Vuole parlarmi della sua identità  armena, come l'ha scoperta o riscoperta, come l'ha vissuta e la vive oggi dopo il successo del libro?

Questa è un'ottima domanda, grazie. L'identità  armena intanto non è affatto in conflitto con l'identità  italiana: io sono nata in Italia, sono italiana, mi sento italiana in tutti i sensi, però è un arricchimento. Avevo sempre raccolto le cose riguardanti gli armeni, non so un articolo una canzone, così in modo un po' romantico. A un certo punto ho scoperto che potevo fare qualcosa, che potevo tradurre questo grande poeta che ho tradotto dieci anni fa, che potevo...che c'era qualcosa dentro di me che era ancora inespresso. Ecco, io credo che non si finisca mai di imparare, né di svilupparsi, capisci? Non importa l'età  che hai. Ad un certo punto, quindici anni fa, ho cominciato a sentire che mi piaceva, che mi sentivo soddisfatta, che mi faceva crescere, e così prima ho tradotto il poeta, il successo del poeta mi ha confortato, poi ho scritto il libro "Hushèr: La memoria " sui sopravvissuti armeni in Italia e poi pian piano ho iniziato a ri-ricordarmi queste cose, a raccontarmele, a raccontarle agli amici, e poi una mia amica americana mi ha detto "guarda, tu queste cose le devi scrivere". Lei e il professor Zecchian di Venezia mi hanno spinto a cominciare. Quando ho cominciato non ho più smesso.

Dal saggio al romanzo è un salto difficile?

Certo. Ed è un salto che non fai mica di volontà . Se tu ti metti lì e dici "adesso scrivo un romanzo" secondo me fai uno dei tanti fallimenti che purtroppo succedono. L'esperienza di tanti anni di insegnamento e di scrittura mi ha fatto capire che ... vedi, quando ho cominciato a scrivere mi sono detta "se continuo a scrivere con questa intensità , con questa gioia di scrivere bene, se mi stufo chiudo e basta". Era una cosa che doveva andare avanti con la ricchezza, la serenità  e la gioia di farla. Io mi sono divertita moltissimo a scriverlo, anche i momenti più tragici. Era come un esercizio di amore che facevo. Scrivevo tre-quattro pagine al giorno e poi mettevo gi๠la penna e il giorno dopo ricominciavo. Era come tessere un tappeto.


Lei scrive a penna?

Ho scritto una parte al computer, l'inizio, e l'ho messa lì, dopo a un certo punto ho scritto a penna perché me lo portavo dietro dove andavo.


Nella storia che lei racconta, e nella realtà  storica, le donne hanno avuto un ruolo molto importante, che però dai manuali scolastici viene spesso trascurato.

Oh sì, assolutamente trascurato. Invece nel caso armeno specifico la salvezza è affidata alle donne perché gli uomini vengono uccisi. Lo dico anche ad un certo punto, che il padre di Shushanig aveva detto "Noi vorremmo salvarvi ma non possiamo", perché? perchè in tutti i massacri armeni sono soprattutto gli uomini a essere uccisi. Le donne casomai vengono uccise in altro modo, culturalmente, perché vengono portate negli harem e lì scompaiono, ma fisicamente gli uomini vengono uccisi. In tutti i campi, sai, il ruolo della donna, non il ruolo del piagnisteo, ma il ruolo formativo, culturale, propositivo della donna è stato trascurato. A volte anche per colpa delle donne stesse, che pensano troppo magari a certe piccole rivincite formali e non alle cose sostanziali. Io non voglio dire che sia solo colpa degli uomini. Dico che effettivamente il ruolo, l'importanza della donna nella salvezza delle culture, non parlo neanche solo di cultura armena, è fondamentale.

A questo proposito, Lei ha scritto un libro sulla "galassia sommersa"delle scrittrici italiane. Me ne vuol parlare?

Sì, volentieri, perché c'è una connessione intima su queste cose. In un certo modo anche per le scrittrici dell'Ottocento italiano c'è un silenzio dei manuali, un silenzio della storia, un silenzio delle cose ufficiali, accademiche, che non meritano. Voglio dire, ogni ragazza italiana conosce chi è Virginia Woolf, per esempio. Nessuno sa chi è Neera, e Neera è una delle grandi scrittrici italiane, ha scritto dei libri stupendi. Non tutti, ma nell'Ottocento si mantenevano scrivendo i romanzi, e perché ogni romanzo dev'essere un capolavoro? Questo è sempre successo nella letteratura, neanche Tolstoj ha scritto tutti capolavori, neanche Shakespeare, neanche nella Divina Commedia ogni canto è un capolavoro... Accettiamo il fatto e parliamo di grandissimi geni, figurati uno scrittore, una scrittrice che si mantiene col suo lavoro, deve pur consegnare, deve pure scrivere l'articolo. Scriverà  trecento novelle, di cui dieci sono bellissime. Quindi, da un lato sono state accusate di scrivere in modo popolare, ma scrivevano per la gente che le leggeva, anche D'Annunzio scriveva in modo popolare, voleva essere letto. Scrivono negli stessi anni, ma loro sono state cancellate dai manuali scolastici, quindi in fondo sono anch'esse delle vittime.
Io iniziai a studiarle parecchi anni fa, quando mi sono occupata del romanzo popolare italiano, e poi ho scavato, scavato, soprattutto su Neera, perché di lei avevo in mano l'archivio. C'è uno splendido archivio privato a Milano che contiene tutto quello che lei ha lasciato, è uno spaccato sulla vita dell'Ottocento inestimabile. E poi anche altre, la Marchesa Colombi, Contessa Lara, Vittoria Ganur, che poi è mezza armena come me ed è una poetessa nata a Padova, casualmente, è curioso, vero? queste voci femminili meritano di essere riportate sullo stesso piano degli uomini, degli scrittori della loro epoca. Luigi Capuana, Verga, Neera, Marchesa Colombi, D'Annunzio, si conoscevano, si scambiavano lettere, e la critica letteraria dell'epoca li stimava tutti, perché adesso le donne devono essere totalmente cancellate? Non ha proprio senso se ci pensi.

Come vede invece la situazione della letteratura femminile contemporanea?

Beh, diciamo che oggi una donna ha assolutamente le stesse opportunità  di pubblicare di un uomo, anzi quasi di più, guarda quante scrittrici ci sono. Bisogna stare attenti a una certa facilità  di scrittura che c';è in giro, a un certo scambiare magari le proprie fantasie per storie. Il romanzo, se vuoi scriverlo, è una storia, deve esserci una storia dietro, con un principio, uno svolgimento e una conclusione. I romanzi senza conclusione, insomma, bisogna essere Joyce per scriverli! Teniamoci alle cose sensate, utili. L'essere umano adora le storie, gli piace che gli si raccontino storie, da Omero in poi, fossero orali, fossero scritte, siano televisive, siano alla radio, l'essere umano adora le storie, è una sua caratteristica, e attraverso le storie impara un sacco di cose. A un ragazzo fai imparare molto più in fretta se tu gli dai un piccolo quadro storico e poi gli racconti alcuni episodi, lui si fa un'idea. Come i ragazzi sono gli adulti, sono quelli delle università  della terza età  dove vado spesso a tenere conferenze, e che sono appassionatissimi anche loro. Allora, oggi io credo che c'è una grande opportunità  per la scrittura femminile, perché ti ascoltano, perché ti seguono e ti pubblicano, e dobbiamo stare attente a sfruttarla bene.



Arianna Pellegrini

Espansioni

Espansioni

24 opere della pittrice piovese Nicoletta Morello.

17 luglio - 5 settembre 2004
Galleria La Rinascente - Piazza Garibaldi
Ingresso gratuito

Orario: lunedì 13:00 – 21:00; da martedì a sabato 9:00 – 21:00. Domenica chiuso.

Inaugurazione
22 luglio 2004 ore 18:00

La mostra



Il titolo "Espansioni" esprime pienamente stile e tematiche della pittrice piovese. Le sue opere infatti (oli a tecnica mista con impasti materici) parlano di orizzonti dilatati, cieli vastissimi, immense distese d'acqua, delimitate o interrotte da lingue indefinibili di terra o di vegetazione.

Un uso delicatissimo del colore, una stupenda luce soffusa conferiscono un fascino tutto particolare ad ogni opera, tanto che, malgrado gli impasti materici, domina un tangibile senso di leggerezza e di levità .

È una sensazione che nasce da una vera e propria poesia della luce e del colore, una poesia che esprime un profondo lirismo tendente alla sublimazione catartica e metafisica.



La mostra, a cura di Umberto Marinello, è organizzata dall'Assessorato alla Cultura del Comune di Padova in collaborazione con il Gruppo Artisti della Saccisica di Piove di Sacco.


Informazioni
tel. +39 049 8204537

Incontro con Marino Gradella

Incontro con Marino Gradella

Incontro con Marino Gradella

L'artista Marino Gradella, a cui è dedicata una mostra antologica personale, sarà  presente in sala espositiva per raccontare il suo percorso artistico, le sue esperienze, le sue motivazioni.

Venerdì 9 luglio dalle 17:00 alle 19:00
"La Rinascente"€ - Piazza Garibaldi

Per partecipare all'€™incontro rivolgersi a:
Settore Attività  Culturali
via Porciglia 35 "€“ Padova

Per informazioni:
tel. +39 049 8204523
e-mail mazzucatos@comune.padova.it

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