Intervista a Elena Borgatti

Intervista a Elena Borgatti

Questa settimana parliamo di danza con Elena Borgatti, che dirige una compagnia davvero particolare: la Simple Company. Una compagnia che studia la musica, reinventa gli spazi, valorizza le persone anzichè l'atletismo.

Chi è
Intervista




Chi è


Elena Borgatti ha fondato e dirige la compagnia di danza contemporanea The Simple Company del Concentus Musicus Patavinus (Facoltà  di Lettere e Filosofia dell'Università  di Padova - Dipartimento di Storia della Musica e delle Arti Visive) per la quale ha creato più di cinquanta coreografie che hanno ricevuto diversi riconoscimenti in Italia e all'estero. ͈ coautrice del testo per corsi universitari di Ingegneria Esercizi elementari di controlli automatici (PÍ tron editore, 2003 - prima edizione 1998). Un suo racconto appare nell'antologia Effetto Globale (Il Poligrafo, 2003) curata da Giulio Mozzi. ͈ di prossima pubblicazione sugli Atti dell'Accademia Galileiana di Scienze, Lettere ed Arti un saggio di Elena Borgatti sulla commistione dei mezzi espressivi nei primi decenni del Novecento francese. ͈ autrice del libro La diaria del danzatore, pubblicato da L'Impronta Editrice (Mori, Trento, luglio 2004) nella collana "Nuovo Rinascimento" diretta da Massimo Sannelli.

Con la Simple Company svolge attività  di ricerca nel settore coreico e allo stesso tempo si occupa dell'analisi delle partiture musicali su cui viene costruita una coreografia. Tale lavoro ha prodotto risultati interessanti e innovativi sia nel campo della danza, dove la compagnia ha ottenuto importanti premi e riconoscimenti a livello nazionale ed internazionale, sia nel campo musicale in cui spesso le interpretazioni coreografiche hanno fornito nuova luce a partiture anche molto note come La Tempesta di Beethoven, Danses Concertantes di Stravinskij, Quadri di un'esposizione di Musorgskij.

Fanno parte della compagnia:
  • Michela Camerani

  • Tiziana Maiuro

  • Lucia Mariuz

  • Chiara Mengato

  • Saralisa Murroni

  • Guido Patron

  • Alice Rusconi Bodin


Per saperne di più:
Sul sito http://www.cmp.unipd.it/danza/ puoi trovare maggiori informazioni sulla compagnia e numerose fotografie, l'elenco delle oltre 50 coreografie di Elena Borgatti, una rassegna stampa tratta da quotidiani locali e nazionali e periodici specializzati.

Sul sito "http://www.ublog.com/sequences
è stato pubblicato un testo critico di Massimo Sannelli al libro "La diaria del danzatore" di Elena Borgatti.



Intervista



La Simple Company
Elena: danza, musica, coreografie... e un libro
La danza a Padova
La danza in tv




LA SIMPLE COMPANY



Com'è nata la Simple Company?

La compagnia è nata nel 1997 dall'idea di riunire un gruppo di artisti contemporanei a Padova. Non è nata all'interno di una scuola ma spontaneamente tra me e alcuni amici che hanno deciso di seguire una strada nuova, di esplorazione, di ricerca. Fin dall'inizio è stata composta non solo da danzatori ma anche da persone di diverse formazioni: attori, artisti di strada, circensi, ginnasti... danzatori "puri" ne ho avuti alcuni, ma non tantissimi. La nostra compagnia è sempre stata molto variegata.

Perché si chiama Simple Company?

E' stato difficile scegliere il nome della compagnia perché volevamo che riflettesse il nostro atteggiamento nei confronti dell'arte. Abbiamo scelto il nome dalla nostra prima coreografia, basata sulla Simple Symphony di Benjamin Britten, e non l'abbiamo più cambiato. Ci piace anche perché rispecchia non tanto l'aspetto esteriore del nostro lavoro, che in realtà  può apparire spesso difficile e complicato, ma la semplicità  con cui interagiscono tra loro le persone della compagnia. Lavoriamo molto bene insieme, non ci sono difficoltà  all'interno del gruppo: è tutto molto semplice e lineare.

Come si entra nella compagnia?

Si entra tramite audizione. Questo termine spaventa tutti i danzatori! Mi chiedono: "cosa bisogna fare?" "cosa bisogna portare?". Invece si svolge tutto in maniera tranquilla: si comincia con una lezione di classica, per vedere come reagisce il corpo alla tecnica, e poi si prova una nostra coreografia di repertorio.

Quindi la parte tecnica è importante?

Non sempre. I danzatori tecnicamente più bravi spesso hanno un'espressività  fredda. A me colpisce di più un'espressione, o la capacità  di interagire con me; gli "esecutori" non mi piacciono. Il più delle volte nelle compagnie si dà  grande importanza alla perfezione fisica: anche questo non mi piace. Non cerco la perfezione fisica, né la perfezione tecnica.

Ci sono anche dei corsi di formazione, a livello base e avanzato, vero?

Sì, sono tenuti dai danzatori della compagnia. Non sono corsi dove si insegnano le principali tecniche della danza contemporanea, come accade di norma nelle scuole: si focalizza l'attenzione soprattutto sulla ricerca del movimento e sulla sperimentazione, anche se gli allievi sono "principianti". La finalità  è quella di dare una forma mentis diversa. Il "corso di danza" lo ritengo qualcosa di passivo per chi lo segue: da una parte c'è il docente che insegna, e dall'altra l'allievo che ascolta. Da noi, invece, l'allievo viene invitato a dare il proprio contributo artistico. Trovo più formativo spingere l'allievo a essere creativo e critico nei confronti del movimento, piuttosto che fornire solo nozioni. Se si insegna solo la tecnica, l'allievo sarà  portato a giudicare se stesso e gli altri in base alla capacità  di riprodurre gli elementi di quella tecnica, mentre invece si può fare danza in mille modi, anche realizzando in maniera apparentemente sbagliata una sequenza di movimenti.

Quante persone fanno attualmente parte della compagnia?

Sei persone sono lo "zoccolo duro" della compagnia.

E quante frequentano i corsi?

Una ventina circa.

I corsi servono a finanziare le attività  della compagnia?

No, siamo finanziati dall'Università  di Padova perché facciamo parte del Concentus Musicus Patavinus. A chi frequenta i corsi si chiede solo di contribuire alle spese per l'affitto della palestra, che è privata.

Sono molte le persone che chiedono di sostenere l'audizione per entrare in compagnia?

Sì. Sono tutti ballerini molto bravi. L'anno scorso mi sembra che fossero una quarantina, da tutto il Veneto, ma anche un paio di persone da fuori.

Quante ore provate alla settimana?

Dalle sei alle otto ore alla settimana.

La Simple Company porta la danza in contesti inusuali, come i musei. Perché?

Perché in teatro lo spazio è regolare, le luci si piazzano dove si vuole, le entrate e le uscite sono sempre le stesse e quindi il contesto del teatro può essere poco stimolante. Invece, ad esempio, nei musei si hanno a disposizione spazi difficili che mettono a dura prova la creatività  e lo spirito di adattamento, ma che consentono anche di inventare spazi nuovi. Ricordo di un nostro spettacolo bellissimo al Museo delle Belle Arti di Nancy. Era un posto molto suggestivo. Sullo sfondo della scena avevamo i resti di un Bastione della città , ma lo spazio su cui dovevamo danzare era allucinante: aveva la forma di un trapezio rettangolo schiacciato, con le basi una molto lunga e l'altra molto corta. Non c'erano né quinte, né uscite di altro tipo e neppure un posto dove cambiarsi d'abito tra una coreografia e l'altra: non ci avevano avvertiti di tutte queste "mancanze" e, dopo un viaggio lunghissimo, ci siamo trovati spiazzati e costretti a trovare una soluzione a un paio d'ore dall'inizio dello spettacolo. Qualsiasi compagnia avrebbe rifiutato di esibirsi, e invece noi abbiamo reinventato lo spazio, lì al momento. Abbiamo adattato al nuovo spazio le nostre coreografie, come se fossero di gomma, e infine abbiamo piazzato alcune luci che illuminavano il Bastione dal basso: è stato bellissimo. Allo spettacolo c'erano moltissime persone, così tante che i posti a sedere erano ampiamente insufficienti e parte del pubblico ha assistito allo spettacolo seduto a terra a pochi centimetri da noi.
Una cosa simile è successa al Museo Eremitani. In quell'occasione ci era stato chiesto di replicare uno spettacolo che avevamo pensato e realizzato per un teatro. Inizialmente ci era stata proposta la Sala del Romanino, che è rettangolare e abbastanza grande, e quindi non pensavamo di avere problemi, poi però, a pochi giorni dallo spettacolo, la sala non era più a disposizione e ci è stato chiesto di danzare nel chiostro. Abbiamo usato tutto: gli angoli, le colonne, le scale, la grande ruota sul fondo del chiostro...persino il pozzo, i danzatori uscivano anche da lì.
Un altro posto che ricordo volentieri è il Bastione Santa Croce. Avremmo dovuto danzare su un palco allestito all'aperto, che però era inservibile perché troppo piccolo. Girando per il Bastione, ci siamo accorti della presenza una galleria sotto ad un arco molto ampio: a terra, però, c'erano calcinacci, foglie secche, detriti di ogni tipo, e persino un grosso bidone arrugginito...siamo andati in un supermercato, abbiamo comprato guantoni, scope, palette e sacchi dell'immondizia e, invece di fare le prove, abbiamo ripulito tutto e inventato un nuovo spazio scenico. L'arco illuminato era meraviglioso e l'atmosfera era raccolta e molto suggestiva. E' stato veramente molto bello.
E' ovvio che tutto questo stravolge l'idea della rappresentazione teatrale, con i suoi ritmi, gli spazi, i piazzamenti delle luci, le prove generali e tutto il resto. Il teatro è teatro: si sa che c'è uno spazio e che quello devi usare. Dal mio punto di vista può essere limitante. E' più interessante interagire con l'ambiente. Ogni volta è un trauma perché pensiamo di non riuscire a superare gli ostacoli, però alla fine siamo sempre stati capaci di realizzare uno spazio scenico dove prima non c'era, e di questo siamo molto contenti. Diciamo così: se nella danza contemporanea si lavora molto sull'improvvisazione del movimento, noi invece improvvisiamo sugli spazi.

Percepisci la presenza del pubblico quando danzi in un teatro? E in un museo?

Beh, questo è un capitolo delicato. Premetto che noi non ci esibiamo per il pubblico. Non pensiamo mai "questo può piacere, quest'altro no, questo può far scalpore, quest'altro può commuovere"... Una volta mi è capitato di fare le prove di uno spettacolo all'aperto sotto il temporale: tutti ripetevano "stasera non verrà  nessuno perché piove", ma a me non interessava per niente e anzi mi stupivo di quanto gli altri invece ci tenessero. Non determino il successo di una rappresentazione in base all'affluenza del pubblico: un artista onesto sa, a prescindere dal pubblico, se ha operato bene oppure no, il resto non conta. Quello che mi interessa del rapporto artista-pubblico è, ad esempio, il dialogo. Non amo lo spettatore passivo che assiste ad uno spettacolo solo per "guardare qualcosa". Una volta, al termine di una nostra rappresentazione, una signora mi ha chiesto "Cosa voleva dire questo spettacolo?", ma io non le ho risposto, e invece ho chiesto io a lei che cosa avesse capito. La signora ha cominciato a parlare, a descrivermi mille immagini che, a dire la verità , non c'entravano niente con lo spettacolo, e mi raccontava così tante cose e in maniera così coinvolgente! Vedi, in quel momento era lei l'artista. Così voglio che sia il mio rapporto col pubblico: un rapporto di scambio. Mi piace che le persone non si sentano solo spettatori ma a loro volta artisti. Quando sento che qualcuno si sottrae ad ogni forma di giudizio dicendo "Non capisco niente di danza", io rispondo che non è importante capire qualcosa di danza: a volte le persone dell'ambiente dicono un mucchio di banalità  su quello che vedono, mentre gli altri, i "non esperti", vedono le cose da un punto di vista diverso, e perciò molto spesso i loro commenti sono più originali, interessanti. E così capita che sono io a chiedere agli spettatori "cos'hai visto? cosa puoi dirmi?", e faccio domande per avere altri spunti, in continua interazione ed evoluzione.

Adatti lo spettacolo al luogo in cui si svolge?

Dipende molto. Come ti ho già  detto, per me è bello giocare con l'ambiente. Ma il tono dello spettacolo è determinato anche dalla simpatia delle persone con cui si collabora. Se sono simpatiche, ci adattiamo ad ogni imprevisto e magari arricchiamo lo spettacolo proponendo novità , altrimenti rispondiamo all'antipatia con l'intransigenza e arriviamo addirittura a fare dispetti in scena.


ELENA: DANZA, MUSICA, COREOGRAFIE... E UN LIBRO







Mi parli un po' di te? Come ti sei avvicinata alla danza?

Ah, hanno dovuto allontanarmi! Ho avuto questa passione fin da piccola. Sono cresciuta a pane e musica classica: mio padre mi cantava i Lieder di Schubert per addormentarmi e mia madre era appassionata di musica del Settecento. A casa mia si ascoltava musica classica tutto il giorno. Il passo musica-danza è stato breve. Danzare era per me un modo per restituire l'affetto che mi era stato dato. Ed è ancora così: per me la danza è il mezzo di espressione preferenziale, più della parola, forse proprio perché a casa mia c'era questo affetto che ci legava attraverso i gesti e la musica, al di là  delle parole.

E il tuo rapporto con la musica com'è?

Difficile. E' come dire qual è il mio rapporto con le mie braccia, le mie gambe... Tante volte la musica è anche il mio orologio. Se so di avere un quarto d'ora di tempo metto, ad esempio, la Grande Fuga di Beethoven: finita la musica, so che è passato il quarto d'ora. Faccio continuamente pensieri musicali, se sono in auto e metto la freccia mi viene in mente una musica che ha quel ritmo, se guardo qualcuno che cammina in un determinato modo, o sento la voce di una persona, associo immediatamente una musica che si adatta a quella camminata o a quella voce... Non saprei dirti com'è: è! Mi capita di continuo, anche adesso. La musica racconta, parla, come quando si è tra amici. Mi sento continuamente chiamata ad interagire con la musica. E' qualcosa che esula da quello che può rappresentare la musica da un punto di vista estetico.

Come nascono le tue coreografie?

Le coreografie non nascono da un ragionamento: è la musica che mi suggerisce quello che devo fare. I miei danzatori sono talmente abituati a questo mio modo di lavorare che ormai anche loro percepiscono certi "suggerimenti" musicali. Sai, non è una cosa così frequente nella danza. La mia impressione è che danza e musica non si capiscano e che spesso viaggino su canali separati. Nel lavoro di coreografia, ad esempio, viene data molta importanza al prodotto finito, all'insieme di movimenti, musiche, luci, costumi, scene, ma il rapporto con la musica è un po' superficiale. Noi invece analizziamo molto la musica, magari trascurando altri aspetti più legati allo "spettacolo", e se decidiamo di utilizzare una partitura, non ne trascuriamo neppure un elemento.

Quindi il punto di partenza per una coreografia è sempre la musica?

Beh, non sempre. Le coreografie nascono in maniera molto diversa tra di loro, ed ultimamente lo spunto mi è stato dato da alcune poesie. Ho la fortuna di avere alcuni amici poeti molto bravi e, leggendoli, mi sono accorta che le loro poesie non erano solo legate a immagini ma erano anche sonore: le sonorità  perfette di alcuni testi appagavano così tanto la mia emotività  che sono diventate l'origine di nuove coreografie. Comunque, anche in questo caso, l'ispirazione fondamentale è sempre legata al suono. Altre volte succede che lo spunto provenga direttamente dai miei danzatori, dal loro carattere, dai loro atteggiamenti, dai loro errori. Ad esempio ieri, durante le prove, una ragazza ha sbagliato la sequenza, ma il suo "errore" era un movimento così naturale da far sembrare la mia idea iniziale una forzatura. E così abbiamo modificato la coreografia inserendo l' "errore". Non mi piace spingere i danzatori a fare quello che voglio. Preferisco che sia tutto fluido.

Mi parli del tuo libro "Diaria di un danzatore"?

Sono un po' in imbarazzo perché non riesco a dare un carattere a questo libro. Parla di musica, poesia e danza, ed è corredato da un gran numero di foto della compagnia fatte da Michele Marrazzo. Questo sul piano formale. Ma ogni pagina ha un suo carattere e una diversa impaginazione, e c'è un forte legame parola - immagine. I danzatori non sono mai "in posa" perché volevo dare della danza una descrizione non "kitsch": sono tutte fotografie scattate durante le prove o nel "dietro le quinte" e descrivono con grande realismo gli stati d'animo dei danzatori.
Devo dirlo: è un libro fortemente critico nei confronti dell'ambiente della danza, soprattutto di chi la usa per arrivare al successo o per appagare il proprio ego. Bisogna avere rispetto della danza. Scrivere i testi è stato difficile perché ho dovuto rivivere molti ricordi: ci sono tante storie legate alle persone che ho incontrato, e tanti personaggi che in un modo o nell'altro mi hanno arricchita. L'ho scritto sostanzialmente per i miei ragazzi, e lo considero quasi come un nostro diario personale. Recentemente è stato presentato al Bo da Massimo Sannelli che in quell'occasione ha espresso giudizi e opinioni che mi hanno commossa.




LA DANZA A PADOVA



Ci sono occasioni per vedere buoni spettacoli di danza a Padova?

Secondo me sì, non nei posti tradizionali (dove, se va bene, si vedono compagnie affermate che circuitano, ormai da qualche anno, con spettacoli non propriamente all'avanguardia) ma in quelli sconosciuti. Si ha come l'impressione che la sperimentazione sulla danza sia un'attività  da carbonari. Sì, ci sono belle forme di ricerca, ma in luoghi inusuali, poco frequentati, ci sono tante idee e creatività . Purtroppo però chi non è dell'ambiente della danza non li conosce né ha modo di farlo. Manca la pubblicità , e questi piccoli gruppi, che fanno cose interessanti, a volte sono i primi a non promuoversi a sufficienza.

Esiste una cultura della danza a Padova?

Ci sono tante scuole, tanto frequentate. Alcune di queste sono ottime scuole. Però ho l'impressione che al di là  dell'insegnamento si vada poco oltre. D'altronde chi ha una scuola difficilmente può permettersi di fare ricerca. Quindi ci sono tante persone che conoscono la danza, la studiano e la praticano, però ad esempio manca una compagnia rappresentativa della città  che raccolga espressioni diverse e coreografi diversi. Eppure ci sarebbero gli elementi per farlo, c'è tanto talento a Padova.

La danza è un linguaggio molto affascinante, ma difficile. Come si può avvicinare a questo linguaggio un pubblico più ampio?

Non lo so. Secondo me chi opera nel mondo della danza dovrebbe essere più accogliente. Il mondo della danza punta molto sull'aspetto fisico, sull'atletismo e sulla capacità  di fare cose strabilianti in scena. Bisognerebbe aprirsi di più dal punto di vista culturale, e accettare anche persone che, secondo i canoni correnti, non avrebbero il fisico adatto per fare danza. Pina Bausch ad esempio ha fatto una coreografia con persone anziane: giusto, perché gli anziani non dovrebbero danzare?
Si tratta di riuscire a capire quello che una persona può offrire: quella è già  danza. Purtroppo però fissare l'attenzione su qualcosa che è davanti agli occhi di tutti può sembrare talmente naturale e "facile" da non essere nemmeno degno di considerazione, e quindi diventa invisibile.

Purtroppo sia le scuole di danza, sia i biglietti per gli spettacoli sono in genere abbastanza costosi. Non c'è il rischio che la danza diventi una forma d'espressione un po' elitaria?

E' già  così. Di recente ho parlato con l'assessore Balbinot per proporre un progetto di laboratorio di danza multiculturale rivolto ai bambini. Ho sottolineato che mi piacerebbe fosse gratuito per permettere anche ai figli di immigrati, e di persone in difficoltà , di frequentarlo. C'è un tale potenziale nella nostra città ! I bambini hanno il diritto di fare cose belle insieme, di divertirsi.




LA DANZA IN TV



Credo che molte ragazze si iscrivano a una scuola di danza con la speranza di ballare in un programma televisivo. Secondo te la tv nuoce alla danza come forma d'arte?

Tantissimo. Cioè... è un bene che ci sia tanta danza in tv, è un male che ci sia "quel" tipo di danza. Ad esempio, nelle trasmissioni in cui ci sono quelle specie di "scuole" viene proposto solo un genere di danza, limitato e limitante. Pare che il fine dello studio sia solo fare le capriole, tuffarsi l'uno sull'altro, lanciarsi in aria e sopravvivere dignitosamente al "gioco al massacro" delle cosiddette "prese". La danza è un linguaggio molto più ricco!
Le coreografie televisive sono tutte uguali, i passi sono sempre gli stessi, i costumi tutti dello stesso tipo. Lo trovo veramente noioso: ognuno mostra quello che sa fare e, se non sa fare niente, sorride alle telecamere agitando le braccia a tempo di musica. Questa non è cultura della danza, è spettacolo di basso livello. Come mai, per esempio, nelle "scuole di danza" televisive, che dovrebbero formare nuovi danzatori, non si accenna minimamente alla danza contemporanea o al teatro-danza? Molti esperti del settore si lamentano dell'assenza di danza in tv perché in effetti, allo stato attuale, è come se non ci fosse. Se poi parliamo di letterine o veline, beh, sono ruoli televisivi umilianti. Se ci sono tante ragazze che si iscrivono a danza aspirando a quello, peggio per loro, e mi dispiace perché perdono delle buone occasioni per imparare qualcosa di interessante. Ci sono mamme che iscrivono le loro figlie a danza perché sperano prima o poi di vederle in televisione. Peccato...


Arianna Pellegrini

Un veneto in fuga per il mondo

Un veneto in fuga per il mondo

Incontro con Piero Sanavio, scrittore padovano.
Piero Sanavio torna a Padova per conoscere i suoi concittadini: già  definito da Andrea Zanzotto "un veneto in fuga per il mondo", l'attività  di Sanavio come giornalista, scrittore, funzionario dell'€™UNESCO con rango diplomatico, docente universitario, si è svolta quasi esclusivamente all'€™estero.

giovedì 16 dicembre, ore 21:00
Sala Rossini del Caffè Pedrocchi

Piero Sanavio può essere definito uno scrittore glocale. Padovano di nascita, se ne è andato via da Padova in giovane età . E' uno dei massimi esperti mondiali di Ezra Pound, che ha conosciuto fin dai tempi dell'€™internamento del poeta in un ospedale psichiatrico di Washington.
Rientrato in Italia, vive attualmente a Roma, ma non ha mai dimenticato la sua città . In tutti i suoi romanzi, Padova resta il punto di partenza di vicende che poi attraversano il mondo (in particolare in La felicità  della vita, Quasar "€“ Manni, Roma, 2000).

All'incontro parteciperanno

- Saveria Chemotti, docente universitaria di letteratura e studiosa di Sanavio, parlerà  dello scrittore

- Marco Franzoso, giovane scrittore padovano, dialogherà  con il collega più anziano

- Edoardo Pittalis, giornalista, vicedirettore de Il Gazzettino, intervisterà  il "personaggio" Sanavio, la cui vita è stata decisamente avventurosa

- Nin Scolari, attore e regista padovano, leggerà  brani scelti dai romanzi di Piero Sanavio

I martedì del Pedrocchi

I martedì del Pedrocchi

I martedì del Pedrocchi

Riprendono gli appuntamenti culturali nella Sala Rossini del Caffè Pedrocchi.
Il primo appuntamento è dedicato alla biografia di Silvano Pontello. Il giornalista Stefano Vietina parlerà  del suo libro di testimonianze sulla figura del banchiere-imprenditore, già  direttore generale e presidente della Banca Antonveneta.

martedì 14 dicembre, ore 17:30
Sala Rossini del Caffè Pedrocchi

L'incontro vuole porre in evidenza quegli aspetti del carattere e della personalità  di Silvano Pontello (direttore generale e poi presidente di Banca Antonveneta, scomparso prematuramente nel marzo 2002) che sono certamente meno conosciuti e, in qualche modo, "inattesi" se riferiti ad un personaggio pubblico che così profondamente ha inciso nella storia recente di Padova.

Dalla lettura delle testimonianze raccolte da Stefano Vietina nel volume "Silvano Pontello, biografia a più voci di un banchiere-imprenditore" il ritratto emerge chiaro, in tutte le sue sfaccettature.
Si tratta di testimonianze che coprono oltre cinquant'anni di storia, di amici d'infanzia, di compagni d'università , di imprenditori, di banchieri, di collaboratori a vari livelli, di personaggi che per un tratto breve o lungo della loro strada hanno incrociato quella di Silvano Pontello.

Interverranno
- Carlo Ciani, Amministratore delegato dell'€™Istituto Europeo di Oncologia
- Remo Naccarato, primario di Gastroenterologia dell'Ospedale di Padova e Professore di Gastroenterologia dell'Università  di Padova
- Mario Vernesoni, già  Vicedirettore Generale di Banca Antonveneta
- Stefano Vietina, giornalista

Incontro promosso dall'Assessorato alle politiche culturali e spettacolo e dall'Associazione "Amici del Pedrocchi".

Per altre informazioni sul libro visita il sito dell'autore: http://www.stefanovietina.it

Fermenti Culturali. Intervista ad Andrea Pennacchi

Fermenti Culturali. Intervista ad Andrea Pennacchi

Fermenti Culturali. Intervista ad Andrea Pennacchi


Non solo monumenti e musei: la cultura di una città  è fatta anche e soprattutto di persone, che hanno idee e passione. Con questa convinzione inauguriamo la rubrica "Fermenti culturali", in cui vogliamo presentare gli artisti di Padova: coloro che, con le loro idee, la loro passione, i loro "€œfermenti"€, rendono vivace la vita culturale della città . Maggiore spazio verrà  dato agli artisti più giovani, ancora poco noti al grande pubblico.

Il primo appuntamento è con Andrea Pennacchi, attore e regista teatrale.


Chi è
Intervista




Chi è



Attore del Teatro Popolare di Ricerca dal 1991, si è formato prima nel laboratorio biennale della compagnia e in seguito ha proseguito la propria formazione seguendo corsi con Mamadou Dioume, del C.I.C.T. di Peter Brook, Vayu Naidu dell'Intercultural Storytelling Company "Brumhalata di Birmingham, Moni Ovadia, Marco Baliani, Laura Curino. Ha inoltre studiato regia con Eimuntas Nekrosius e con Gigi Dall'Aglio. Ha insegnato "Struttura del Racconto Teatrale" al corso professionale per attori organizzato in collaborazione con ARTEVEN e organizzato dalla Regione Veneto. E' direttore artistico del Teatro Filarmonico di Piove di Sacco.



Intervista



La formazione teatrale
"Omero non piange mai"
Il teatro di racconto
Il teatro a Padova


L'appuntamento è in un'enoteca che si chiama Evoè, come l'associazione teatrale di cui Andrea Pennacchi fa parte. A intervista conclusa, gli chiedo perchè l'associazione si chiama così, immaginandomi la risposta. Andrea infatti ride e mi
chiede:"Dove siamo qui?". Ha riso spesso durante l'intervista, perchè lui è così: lavora seriamente, ma non si prende mai sul serio. Ha il faccino di un orsetto a cui piace il miele, e una grande forza fisica. Una forza che il teatro e le arti marziali (è un appassionato di tai chi) gli hanno insegnato a controllare. La forza è anche uno dei temi dello spettacolo "Omero non piange mai" con il quale Andrea Pennacchi debutterà  nel marzo 2005 come autore. A Padova potremo vederlo in aprile, al teatro MPX, nell'ambito della rassegna Arti Inferiori.


La formazione teatrale



Com'è nata la tua passione per il teatro?

E' nata un po' così ... alla fine di un percorso di vita che andava in tutt'altra direzione mi sono ritrovato di nuovo a Padova iscritto all'università  e non sapevo bene cosa sarebbe successo. Assieme ad un vecchio amico d'infanzia ci siamo iscritti a un laboratorio, uno dei tanti che si trovavano a Padova, ma per divertimento. All'epoca ero molto ignorante di teatro, non avevo visto quasi niente. Ricordo da ragazzino qualcosa di Ruzante, non mi era neanche piaciuta. Questo me lo ricordo: mi ero annoiato mortalmente. Quindi era proprio così, per fare un'attività , invece di fare palestra ho scelto teatro. Poi c'è stato l'imprevisto scoppio. Controllato, però, nel senso che non è stato amore a prima vista, è stata una cosa graduale che è cresciuta come un tepore, pian pianino è cresciuto d'intensità  fino a diventare adesso, non faccio fatica ad ammetterlo, una specie di fuoco che mi brucia dentro. Ho fame di teatro: di andare a vedere, di fare...però c'è voluto del tempo. Prima era solo questione di fare, invece adesso è proprio...fame!

Delle cose che hai fatto, quali ricordi particolarmente come tappe di un percorso di crescita?

Più d'una. Mi sono iscritto al laboratorio di una compagnia che ancora mi sta molto a cuore anche se non ne faccio più parte, che è il Teatro Popolare di Ricerca (TPR). Secondo me era un ambiente ideale per me perché c'era gente, sì, un po' fanatica, ma c'era anche gente che voleva divertirsi, che non aveva nessuna intenzione di prendersi sul serio, cioè aveva voglia di prendere sul serio quello che faceva ma non di prendersi troppo sul serio. Per un periodo, nel periodo più creativo da un certo punto di vista per me al TPR, c'è stato veramente un gruppo di attori bravissimi secondo me -io mi tiro fuori ma guardando dall'esterno c'erano veramente degli attori bravi, appassionati - , il direttore, che era ed è tuttora Lorenzo Rizzato, ha notato questa cosa e ha investito energia in questo gruppo...gente che adesso è a Roma a cercare di fare fiction, film, cose simili, più io adesso lo faccio di mestiere, Pierantonio Rizzato anche. Quindi c'è stato veramente un periodo in cui abbiamo fatto cose molto belle. La prima, il mio debutto, quando per una serie strana di coincidenze, prima ancora che io facessi il saggio finale del laboratorio (che era biennale), mi hanno portato a fare una Moschea in Francia, a Nantes. Bellissimo posto. Per me figurati è stata una bellissima esperienza. Un'altra tappa per me molto importante in cui abbiamo un po' preso in mano le redini dell'attività  teatrale e io ho tradotto Rosencrantz e Guildestern sono morti di Tom Stoppard e assieme a questo nucleo di pazzi scatenati l'abbiamo messo in scena e l'abbiamo portato al Verdi. Serata veramente indimenticabile: il sipario si apre, seicento persone che ti guardano. E' abbastanza forte, soprattutto quando uno è abituato al teatrino da cento, duecento posti al massimo: tre volte tanto! E poi al Verdi, teatro storico! Altre tappe importanti...Meno gioiosa è stata la mia decisione di uscire dal TPR, che è stata comunque una tappa importante, sofferta, che adesso sono contento di aver fatto, per quanto appunto mi senta molto affezionato al TPR. Poi la decisione di lavorare a Piove di Sacco, fare il direttore artistico di quel teatro, su offerta dei direttori della Nuova Scena, che sono Filippo Zago e Raffaella Romano, gente della mia età , molto in gamba, che si dà  molto da fare nell'ambito cultura, teatro, cinema.

A livello formativo ricordi dei momenti importanti?

A livello formativo tappe importanti ce n'è stata una marea! Facendo il laboratorio al TPR mi rendevo conto man mano di quante competenze ci vogliono per fare teatro ed ero molto insoddisfatto del mio essere in scena. Mi facevo un sacco di domande. A non tutte Rizzato voleva o poteva rispondere. Visto che eravamo anche Centro Universitario Teatrale, ho iniziato assieme ad altri a organizzare corsi, laboratori invitando artisti da fuori. Il primo incontro ad esempio con Mamadou D'Oume, uno degli attori di Peter Brook a Parigi, è stato traumatico da un lato, ma dall'altro ha aperto orizzonti, ho cominciato a capire significava recitare. Lì ho cominciato a capire cosa voleva dire farlo come un mestiere, ma con la passione che ci voleva. Da lì è stata una serie d'incontri fortunati con gente molto in gamba. Alcuni voluti, nel senso che li abbiamo chiamati. Moni Ovaia ad esempio è stata un'altra esperienza importantissima per me: sia umanamente, quando poi ci siamo trovati siamo stati sempre molto legati, sia professionalmente perché ho iniziato a capire le potenzialità  della voce, ho fatto un lavoro importantissimo sul corpo e la voce assieme. Poi i nomi potrebbero moltiplicarsi. Un altro nome gigantesco è Gigi Dall'Aglio, che è stato a lungo uno dei membri della fondazione Teatro Due di Parma. Mi ha fatto capire che era possibile costruire un'opera d'arte partendo da un lavoro artigianale: ti scegli il legno, lo lavori, fai una cosa che se sei stato molto attento è anche un po' toccata da Dio e da artigiano diventi artista. Però comunque anche solo un artigiano non è niente male, se è un buon artigiano. I debiti sono infiniti perché ad ognuno ho rubato qualcosa, Marco Baliani, Giuliana Musso, Tapa Sudana, un altro attore di Peter Brook...io ho cercato costantemente di apprendere cose nuove, sempre seguendo un filone chiaro, cercando di non andare da un capo all'altro, però, sì, tante sono le persone cui mi sento debitore.

Anche tu sei un formatore, mi parli della tua attività  nei laboratori di formazione?

Premetto che io non ritengo di avere ancora molto da insegnare. C'è ancora tutto un percorso che sto facendo e piano piano comprende anche delle tecniche che si possono trasmettere, però il mio bagaglio è ancora ridicolo comparato a quello di gente tosta da trent'anni in campo. Però una cosa che mi piace fare e che secondo me ha una sua utilità  altrimenti non lo farei è quella dei laboratori, che non sono corsi. Cioè non è che io mi metto lì in cattedra e insegno delle cose. Mi metto semplicemente come guida di un gruppo che parte all'esplorazione di qualcosa. Dopo una prima fase in cui io do, condivido, queste cose tecniche che io ho appreso per strada, la fase successiva è cercare assieme un modo per raccontare storie come gruppo, quindi creare gruppo, utilizzare le tecniche che abbiamo imparato e magari -perché no?- aggiungerne di nuove ... se abbiamo qualche cosa in più la si mette dentro, si fa questo gran minestrone e si cerca di renderlo più omogeneo o più saporito possibile. Questo mi piace e lo faccio. Tra l'altro in un momento in cui ancora fare solo in giro spettacoli non mi fa guadagnare abbastanza per vivere, bisogna essere sinceri, l'attività  laboratoriale integra in maniera molto utile. Ma ci tengo a dire che non lo farei se secondo me non avesse una valenza che va al di là  dell'insegnamento, proprio come crescita, anche mia. E' una cosa che faccio perchè mi serve. In alcuni casi quello che apprendo è drammaticamente impressionante, in altri casi magari è più piccolo. Faccio parecchia attività  formativa in questo periodo: due laboratori al circolo Carichi Sospesi...

Due?

Sì, doveva essere uno ma c'era troppa gente: non si può stare dietro a 30 persone contemporaneamente, così abbiamo diviso il gruppo in due. Poi faccio un laboratorio a Chioggia e uno a Piove di Sacco, più orientato sul racconto.



"Omero non piange mai"



L'anno prossimo debutti come autore. Quando hai sentito che era il momento di affrontare la scrittura di un testo?

Ho sempre avuto l'idea di comporre un testo. Man mano che mi avvicinavo al teatro di racconto, l'idea di scrivere un testo di racconto è emersa come quella più probabile. Anche per motivi bassamente economici: per produrlo, se hai sei attori poi li devi pagare.
Ho dovuto rileggere seriamente l'Iliade per un laboratorio fatto con l'A.T.I.R. diretto da Serena Sinigaglia, una regista bravissima ma con dei metodi che non andavano bene per me. Il pregio principale del laboratorio è che ho dovuto leggere seriamente, non più da adolescente, l'Iliade. Ho scoperto che c'erano dei passi dell'Iliade che potevano contenere tutte le cose che volevo raccontare: cose importanti per me, cose importanti per tutti. Temi che sentivo, come la violenza, la forza, il dolore per la perdita, che io ho provato fortissimo. Tutte queste cose ci stavano dentro questo testo, che in più aveva una sua bellezza che secondo me andava raccontata. In realtà  col senno di poi si è scoperto che quasi tutti la pensavano così: io credevo di essere intelligentissimo, e invece è arrivato Baricco, la Sinigaglia ha fatto le Troiane, chiunque sta facendo l'Iliade!

Ma c'è il tuo apporto personale...

Qui c'è un mio apporto personale fortissimo, anche piuttosto difficile da tirar fuori, che grazie a Dio esce attraverso le parole di Omero. E' una profonda meditazione sulla violenza, la rabbia, la forza intesa nel senso più ampio, compreso quello della prevaricazione, la paura. Sono tutte tematiche che io sentivo tantissimo. Questo è un periodo in cui tutti le sentono, e così anch'io. In più l'amore tra gli esseri umani in situazioni estremamente difficili. Canalizzava benissimo cose che io sento. Ma mi chiedevo sempre: ha senso che io racconti queste cose che sento io personalmente, cioè interessa al pubblico? Perché dovrebbe pagare un biglietto? però quando questa persona che dice queste cose, e le dice con parole meravigliose, è Omero, beh allora forse qualcun altro le può condividere. Da lì è partito il progetto. Ho avuto la fortuna enorme che Laura Curino mi abbia aiutato con la drammaturgia perché effettivamente c'è un lavoro faticosissimo da fare sulla scrittura del testo, se vuoi che sia un buon testo, ed è proprio di limare le cose, tornarci, risistemarle, leggere ad alta voce le cose, sentire se funzionano, rileggerle, scriverle di nuovo, ricomporle...cose che non venivano fuori alla prima lettura verranno fuori alla sesta. Un lavoro artigianale, nel vero senso della parola, che ancora non conoscevo. Avrei fatto un lavoro molto più rozzo senza l'aiuto di Laura, e lei è stata gentilissima e bravissima. Si è messa con una disciplina ferrea e nonostante abbia tremila impegni è riuscita a trovare del tempo anche per questa cosa.

Finora hai fatto due prove aperte per il pubblico del tuo spettacolo "Omero non piange mai". Qual è stata la reazione del pubblico? E come è cambiato il testo dopo quelle esperienze?

C'è stata una prima prova aperta in un ambiente estremamente amichevole, che è il circolo Carichi Sospesi, e l'impressione è stata buonissima. La prima cosa che mi è venuta in mente è stata: bisogna lavorare bene sul rapporto con il musicista. Questo è venuto fuori chiaramente perché eravamo quasi separati, ma questo si può sistemare in corso d'opera. Un'altra cosa che ho notato, e non è certo un caso, è che c'erano dei momenti paoliniani. Io naturalmente ho ben presente l'esempio di Paolini, anche se in realtà  è un po' più complessa la cosa perché ho presente l'esempio di Paolini, di Laura Curino, di tutti quelli che fanno capo a Vacis, che hanno lavorato al Teatro Settimo di Vacis, e loro mi piacciono tantissimo, cioè mi danno sensazioni fortissime quando ascolto i loro racconti, quindi credo sia abbastanza naturale, che anche quasi inconsciamente nel delivery di questo testo siano venuti fuori dei momenti vacisiani, più che paoliniani. Però certo è un rischio: se fai una cosa in Veneto che assomiglia a Paolini, tutti diranno "ecco, ha copiato da Paolini". Quindi bisogna stare attenti.

Com'è andata la seconda prova?

La seconda prova è stata in un ambiente meno amichevole, più casalingo nel senso che è il mio teatro (quello di Piove di Sacco), però in cui c'erano anche operatori del settore, gente che mi era amica ma non veniva da amica, nel senso che veniva professionalmente a vedere. Lì c'è stata la conferma che la linea è giusta, ma anche un profondo lavoro di riduzione del testo, soprattutto della parte omerica, non perché risultasse pesante, ma perché l'accumulo di metafore che c'è in Omero poteva oscurare la bellezza di queste metafore. Se io metto trentasei volte "come il leone che..." può essere che a un certo punto si perda un po' l'effetto straniante di queste metafore, che sono veramente belle e potenti. Una cosa altrettanto importante, che riguarda già  una fase ulteriore, è quella del "è tempo di dare carne a questo testo". Le prove aperte sono state delle letture, è tempo di mettere in pancia questo testo, come si dice, e vedere quali sono i personaggi che emergono, i movimenti, e finalmente qual è il rapporto con la musica.

Parliamo allora dei tuoi musicisti, Francesco Basso e Sergio Marchesini.

Francesco Basso ha composto le canzoni, purtroppo non è in scena, anche se è un vero animale da palcoscenico, però non ci stava in questa cosa. Mi ha dato una mano e si è prestato con generosità  alla composizione delle canzoni. Le canzoni sono ancora in fase di studio, però ci sono credo tre canzoni che verranno composte da me e Francesco e verranno cantate nel corso dello spettacolo, più una che è We'll meet again che mi piace molto. E' una canzone molto dolce, americana di cui io mi sono innamorato nella versione cantata da Johnny Cash, che è bellissima. Con Francesco lavoriamo, abbiamo anche fatto una regia per uno spettacolo di teatro ragazzi, ci conosciamo abbastanza bene ormai. Ho poi trovato un musicista di sensibilità  inaudita, Sergio Marchesini, che è veramente bravissimo. Suona nella Piccola Bottega Baltazar, ed ha un orecchio, una sensibilità  teatrale elevatissima, che non trovi tanto facilmente. Mi trovo molto bene con lui. Non è sempre facile lavorare in tanti su una cosa, però è fondamentale. Io non ho delle competenze e non ho nessuna intenzione di rovinare uno spettacolo perché mi metto a fare tutto io. Cerco di acquisirle, però ci vuole tempo, pazienza. Nel frattempo la cosa migliore è parlare con qualcuno che se ne intende, ne capisce e ti può dare una mano. Queste persone le ho trovate. Tra l'altro in questo periodo i racconti stanno fiorendo dappertutto, e la cosa a me fa piacere perché a me il teatro di racconto piace. Non lo vedo come una moda: è una modalità  di teatro che è giusto abbia un suo valore e una sua diffusione. Però c'è un fatto: moltissimi di questi racconti hanno come accompagnamento la fisarmonica. Questo mi ha mandato un po' in crisi perché ho pensato "anch'io c'ho la fisarmonica, allora tutti penseranno: ecco, l'ennesimo raccontatore con la fisarmonica". Però ho pensato: preferisco scegliere un altro strumento a caso e lavorare con qualcuno che non conosco oppure scegliere la fisarmonica la cui sonorità  secondo me è quella giusta per queste cose e lavorare con uno che stimo e con cui mi trovo molto bene? Ovviamente la scelta non si poneva nemmeno.


Teatro di racconto



Teatro di racconto e teatro classico, di recitazione. Due modalità  di fare teatro, in cosa si differenziano e quali invece sono i punti in comune?

La domanda è enorme, da tesi di laurea! La questione in realtà  è semplicissima, se vogliamo andare alla struttura profonda ed eliminare la superficie: il teatro di racconto è la radice di ogni possibile teatro, perché i racconti li frantumi ed hai un tipo di teatro, i racconti li metti completamente in scena in prima persona ed hai un altro tipo di teatro...Però raccontare storie è una necessità  profonda degli esseri umani che prende tante forme. Il motivo per cui adesso è ritornato nella sua forma originale, e originaria, è che ci sono dei bisogni, delle cose, che evidentemente il teatro di tradizione aveva un po' dimenticato. Secondo me uno di questi fattori è la rottura della quarta parete, cioè il fatto che il narratore renda costantemente evidente l'importanza della presenza del pubblico, rompa costantemente il muro che separa palco- pubblico per interrogarlo, per parlargli. Una tradizione che conosciamo già  da Dario Fo, e che Paolini ha usato, e che tutti hanno usato, ed è giusto che sia così: non perché si tratta di copiare, ma perché il narratore col pubblico deve avere un dialogo. Il narratore ad un certo punto diventa catalizzatore di un'attenzione di una comunità . Se non si crea attorno a lui una comunità , se la gente va a vedere i narratori come si guarda la televisione, non funziona la cosa, muore il racconto. Quindi è giustissimo come fa ad esempio Paolini far salire il pubblico sul palco, giustissimo ad esempio che se c'è un telefonino che trilla non è che faccio finta di niente come nel teatro di tradizione, ma guardo il "colpevole" e gli dico "Ciccio, spegni il telefonino". Quello che c'è, come dice Laura Curino, c'è. Non si ignora niente. E' una necessità  profonda che la gente sempre più sta sentendo, ovvero sentirsi parte di quello che sta succedendo: essere parte di un gruppo che per una sera crea qualcosa. Radicalmente è questo: il teatro di racconto è la radice di tutti i racconti possibili. Il teatro di tradizione è uno sviluppo, molto legato ai suoi tempi, e quindi si vede che perde un po' di colpi. Il teatro di racconto nasce, come dice Baliani, da una crisi del teatro. Baliani è un po' pessimista su questa cosa. Per quanto io lo stimi in maniera enorme, tenderei ad essere più ottimista su questa cosa: secondo me è una crisi positiva. Non credo che finita questa crisi il teatro di racconto si estingua, semplicemente muterà , cambierà  il modo di raccontare. Non è un caso se alla Biennale di quest'anno abbiamo visto finalmente due narratori.


Il teatro a Padova




Parliamo del teatro a Padova.

Padova è una città  strana perché ha una marea di realtà  teatrali: amatoriali, semiprofessionali, ecc... che vanno in grandezza dal Verdi, che assorbe risorse come un'industria in fallimento, alla realtà  con due componenti che fa le letture nelle biblioteche. Non vorrei esagerare, ma secondo me si tratta di migliaia di persone che fanno teatro. Questo è il lato positivo. Il lato negativo è che sono estremamente frammentate queste realtà , non comunicano tra di loro, non hanno una piattaforma comune con cui trovarsi e discutere e quindi frammentano l'attività  teatrale. Non solo: spessissimo uno non va a vedere quello che fa l'altro, e questa secondo me è una gravissima perdita. Non permette a Padova di canalizzare risorse immense, magari collegate anche all'Università , e quindi rimane sempre un brulichio di cose piccole, in cui spesso vedi cose molto interessanti che però poi non riescono mai a realizzarsi perché si annullano tra di loro. Il tutto secondo me oppresso da questo enorme fabbricone del Verdi che ciuccia, ciuccia, ciuccia senza restituire.

Ci sono buone occasioni di formazione a Padova?

Quel che ho detto vale anche per l'attività  formativa. Chiunque voglia cominciare a fare teatro ha un'immensa quantità  di risorse a disposizione, e può gustare un po' di tutto, perché può provare il teatro del TPR, può andare al Tam, Abracalam, Teatro Continuo, può andare al Verdi che adesso ha l'attività  formativa di Terrani. A livello "inizio a fare teatro" c'è una marea di possibilità , anche buone. Non così se vuoi farlo di professione, non così se vuoi ampliare la tua mente, non così se vuoi lavorare: lì le cose cambiano radicalmente. Adesso c'è una grande iniziativa, che fanno i ragazzi dei Carichi Sospesi: un gruppo di teatranti che ha deciso che mancava qualcosa a Padova, e si vede che hanno beccato una vena perché il locale spesso è pieno. C'era bisogno di un posto dove si va a bere una birra, si chiacchiera, si va a vedere uno spettacolo, si vedono cose nuove. A me piace molto, dovrebbe avere più spazio, essere aiutato dal Comune, essere più grande. Ma sicuramente troverà  delle resistenze, la gente non si renderà  conto, difenderà  la propria parrocchietta. Mi dispiace perché ci vorrebbe un momento di dialogo. Non dico tra piccole realtà  e Verdi, perché quello non so quanto sia credibile, ma almeno tra realtà  medio-piccole, quello dovrebbe esserci.

E in quanto a spettacoli?

Ribadisco quello che ti ho appena detto. Io vedo cose interessanti a Padova. Vado al Tam e le vedo. Il lavoro sui carcerati del Tam è grandioso: Cinzia Zanellato ha fatto una cosa bellissima e socialmente...mmm...che vivifica; ai Carichi ho visto cose bellissime che mi hanno emozionato, anche cose che non sarei andato a vedere in altri parti per bigotteria, lo ammetto, però in un contenitore così neutro sono andato a vederle. C'è Beppe Casales che ha fatto il suo racconto, a me è piaciuto. Ho visto cose veramente belle. Il problema è sempre quello: sono cose piccole. Non riescono ad uscire, a darsi una produzione un po' più organizzata, che non riescono ad avere dei fondi, e questo mi dispiace moltissimo perché le risorse ci sono tutte. Bisognerebbe lavorare per creare qualcosa più ampio. Quindi spettacoli ne vedo. Poi adesso c'è questa cosa di Arteven [la rassegna Arti Inferiori], è un'ottima cosa. Non lo dico perchè ci sono io! E' una splendida rassegna. E' anche in certo senso una microsfida al Verdi, che invece si ostina a fare sempre le stesse cose. Qualche anno fa aveva tentato di fare una stagione più giovanile assieme a quella tradizionale, ma poi non l'hanno più ripetuta.

Il festival Itaca, di cui sei uno degli organizzatori, tornerà  a Padova?

Il festival Itaca [per informazioni visita il sito dell'associazione Tonicorti] quest'anno è a un punto di svolta molto importante. Può essere che torni a Padova, era nato per Padova e anche se abbiamo trovato un'ospitalità  meravigliosa ad Abano, molti di noi credono che debba ritornare a Padova. Vuole anche crescere, per questo stiamo lavorando già  perché vorremmo che fosse una cosa più integrata nella città , più articolata nel programma. Finora la parte dominante è stata quella video e musicale, noi teatranti vorremmo che la parte teatrale avesse maggiore rilevanza e quindi dobbiamo lavorare noi. Ci vuole un lavoro più intenso anche per la parte teatrale, che presenti nuove produzioni...anche se finora abbiamo fatto secondo me un buon lavoro, perché abbiamo presentato cose in anteprima che a Padova non si vedevano: Ascanio Celestini quando ancora non era famosissimo, Giuliana Musso con l'anteprima del suo spettacolo Sexmachine, Baliani con una cosa che non portava più tanto in giro, Corpo di Stato, poi l'ultima cosa che abbiamo fatto noi dell'associazione Evoè, Scandisk di Vitaliano Trevisan. Non sono mancate le cose buone. Ma vorremmo farle ancora meglio, magari nate da progetti ad hoc per Itaca.

Arianna Pellegrini

Intervista ad Andrea Pennacchi

Intervista ad Andrea Pennacchi

Intervista ad Andrea Pennacchi


Non solo monumenti e musei: la cultura di una città  è fatta anche e soprattutto di persone, che hanno idee e passione. Con questa convinzione inauguriamo la rubrica "Fermenti culturali", in cui vogliamo presentare gli artisti di Padova: coloro che, con le loro idee, la loro passione, i loro "€œfermenti"€, rendono vivace la vita culturale della città . Maggiore spazio verrà  dato agli artisti più giovani, ancora poco noti al grande pubblico.

Il primo appuntamento è con Andrea Pennacchi, attore e regista teatrale.


Chi è
Intervista




Chi è



Attore del Teatro Popolare di Ricerca dal 1991, si è formato prima nel laboratorio biennale della compagnia e in seguito ha proseguito la propria formazione seguendo corsi con Mamadou Dioume, del C.I.C.T. di Peter Brook, Vayu Naidu dell'Intercultural Storytelling Company "Brumhalata di Birmingham, Moni Ovadia, Marco Baliani, Laura Curino. Ha inoltre studiato regia con Eimuntas Nekrosius e con Gigi Dall'Aglio. Ha insegnato "Struttura del Racconto Teatrale" al corso professionale per attori organizzato in collaborazione con ARTEVEN e organizzato dalla Regione Veneto. E' direttore artistico del Teatro Filarmonico di Piove di Sacco.



Intervista



La formazione teatrale
"Omero non piange mai"
Il teatro di racconto
Il teatro a Padova


L'appuntamento è in un'enoteca che si chiama Evoè, come l'associazione teatrale di cui Andrea Pennacchi fa parte. A intervista conclusa, gli chiedo perchè l'associazione si chiama così, immaginandomi la risposta. Andrea infatti ride e mi
chiede:"Dove siamo qui?". Ha riso spesso durante l'intervista, perchè lui è così: lavora seriamente, ma non si prende mai sul serio. Ha il faccino di un orsetto a cui piace il miele, e una grande forza fisica. Una forza che il teatro e le arti marziali (è un appassionato di tai chi) gli hanno insegnato a controllare. La forza è anche uno dei temi dello spettacolo "Omero non piange mai" con il quale Andrea Pennacchi debutterà  nel marzo 2005 come autore. A Padova potremo vederlo in aprile, al teatro MPX, nell'ambito della rassegna Arti Inferiori.


La formazione teatrale



Com'è nata la tua passione per il teatro?

E' nata un po' così ... alla fine di un percorso di vita che andava in tutt'altra direzione mi sono ritrovato di nuovo a Padova iscritto all'università  e non sapevo bene cosa sarebbe successo. Assieme ad un vecchio amico d'infanzia ci siamo iscritti a un laboratorio, uno dei tanti che si trovavano a Padova, ma per divertimento. All'epoca ero molto ignorante di teatro, non avevo visto quasi niente. Ricordo da ragazzino qualcosa di Ruzante, non mi era neanche piaciuta. Questo me lo ricordo: mi ero annoiato mortalmente. Quindi era proprio così, per fare un'attività , invece di fare palestra ho scelto teatro. Poi c'è stato l'imprevisto scoppio. Controllato, però, nel senso che non è stato amore a prima vista, è stata una cosa graduale che è cresciuta come un tepore, pian pianino è cresciuto d'intensità  fino a diventare adesso, non faccio fatica ad ammetterlo, una specie di fuoco che mi brucia dentro. Ho fame di teatro: di andare a vedere, di fare...però c'è voluto del tempo. Prima era solo questione di fare, invece adesso è proprio...fame!

Delle cose che hai fatto, quali ricordi particolarmente come tappe di un percorso di crescita?

Più d'una. Mi sono iscritto al laboratorio di una compagnia che ancora mi sta molto a cuore anche se non ne faccio più parte, che è il Teatro Popolare di Ricerca (TPR). Secondo me era un ambiente ideale per me perché c'era gente, sì, un po' fanatica, ma c'era anche gente che voleva divertirsi, che non aveva nessuna intenzione di prendersi sul serio, cioè aveva voglia di prendere sul serio quello che faceva ma non di prendersi troppo sul serio. Per un periodo, nel periodo più creativo da un certo punto di vista per me al TPR, c'è stato veramente un gruppo di attori bravissimi secondo me -io mi tiro fuori ma guardando dall'esterno c'erano veramente degli attori bravi, appassionati - , il direttore, che era ed è tuttora Lorenzo Rizzato, ha notato questa cosa e ha investito energia in questo gruppo...gente che adesso è a Roma a cercare di fare fiction, film, cose simili, più io adesso lo faccio di mestiere, Pierantonio Rizzato anche. Quindi c'è stato veramente un periodo in cui abbiamo fatto cose molto belle. La prima, il mio debutto, quando per una serie strana di coincidenze, prima ancora che io facessi il saggio finale del laboratorio (che era biennale), mi hanno portato a fare una Moschea in Francia, a Nantes. Bellissimo posto. Per me figurati è stata una bellissima esperienza. Un'altra tappa per me molto importante in cui abbiamo un po' preso in mano le redini dell'attività  teatrale e io ho tradotto Rosencrantz e Guildestern sono morti di Tom Stoppard e assieme a questo nucleo di pazzi scatenati l'abbiamo messo in scena e l'abbiamo portato al Verdi. Serata veramente indimenticabile: il sipario si apre, seicento persone che ti guardano. E' abbastanza forte, soprattutto quando uno è abituato al teatrino da cento, duecento posti al massimo: tre volte tanto! E poi al Verdi, teatro storico! Altre tappe importanti...Meno gioiosa è stata la mia decisione di uscire dal TPR, che è stata comunque una tappa importante, sofferta, che adesso sono contento di aver fatto, per quanto appunto mi senta molto affezionato al TPR. Poi la decisione di lavorare a Piove di Sacco, fare il direttore artistico di quel teatro, su offerta dei direttori della Nuova Scena, che sono Filippo Zago e Raffaella Romano, gente della mia età , molto in gamba, che si dà  molto da fare nell'ambito cultura, teatro, cinema.

A livello formativo ricordi dei momenti importanti?

A livello formativo tappe importanti ce n'è stata una marea! Facendo il laboratorio al TPR mi rendevo conto man mano di quante competenze ci vogliono per fare teatro ed ero molto insoddisfatto del mio essere in scena. Mi facevo un sacco di domande. A non tutte Rizzato voleva o poteva rispondere. Visto che eravamo anche Centro Universitario Teatrale, ho iniziato assieme ad altri a organizzare corsi, laboratori invitando artisti da fuori. Il primo incontro ad esempio con Mamadou D'Oume, uno degli attori di Peter Brook a Parigi, è stato traumatico da un lato, ma dall'altro ha aperto orizzonti, ho cominciato a capire significava recitare. Lì ho cominciato a capire cosa voleva dire farlo come un mestiere, ma con la passione che ci voleva. Da lì è stata una serie d'incontri fortunati con gente molto in gamba. Alcuni voluti, nel senso che li abbiamo chiamati. Moni Ovaia ad esempio è stata un'altra esperienza importantissima per me: sia umanamente, quando poi ci siamo trovati siamo stati sempre molto legati, sia professionalmente perché ho iniziato a capire le potenzialità  della voce, ho fatto un lavoro importantissimo sul corpo e la voce assieme. Poi i nomi potrebbero moltiplicarsi. Un altro nome gigantesco è Gigi Dall'Aglio, che è stato a lungo uno dei membri della fondazione Teatro Due di Parma. Mi ha fatto capire che era possibile costruire un'opera d'arte partendo da un lavoro artigianale: ti scegli il legno, lo lavori, fai una cosa che se sei stato molto attento è anche un po' toccata da Dio e da artigiano diventi artista. Però comunque anche solo un artigiano non è niente male, se è un buon artigiano. I debiti sono infiniti perché ad ognuno ho rubato qualcosa, Marco Baliani, Giuliana Musso, Tapa Sudana, un altro attore di Peter Brook...io ho cercato costantemente di apprendere cose nuove, sempre seguendo un filone chiaro, cercando di non andare da un capo all'altro, però, sì, tante sono le persone cui mi sento debitore.

Anche tu sei un formatore, mi parli della tua attività  nei laboratori di formazione?

Premetto che io non ritengo di avere ancora molto da insegnare. C'è ancora tutto un percorso che sto facendo e piano piano comprende anche delle tecniche che si possono trasmettere, però il mio bagaglio è ancora ridicolo comparato a quello di gente tosta da trent'anni in campo. Però una cosa che mi piace fare e che secondo me ha una sua utilità  altrimenti non lo farei è quella dei laboratori, che non sono corsi. Cioè non è che io mi metto lì in cattedra e insegno delle cose. Mi metto semplicemente come guida di un gruppo che parte all'esplorazione di qualcosa. Dopo una prima fase in cui io do, condivido, queste cose tecniche che io ho appreso per strada, la fase successiva è cercare assieme un modo per raccontare storie come gruppo, quindi creare gruppo, utilizzare le tecniche che abbiamo imparato e magari -perché no?- aggiungerne di nuove ... se abbiamo qualche cosa in più la si mette dentro, si fa questo gran minestrone e si cerca di renderlo più omogeneo o più saporito possibile. Questo mi piace e lo faccio. Tra l'altro in un momento in cui ancora fare solo in giro spettacoli non mi fa guadagnare abbastanza per vivere, bisogna essere sinceri, l'attività  laboratoriale integra in maniera molto utile. Ma ci tengo a dire che non lo farei se secondo me non avesse una valenza che va al di là  dell'insegnamento, proprio come crescita, anche mia. E' una cosa che faccio perchè mi serve. In alcuni casi quello che apprendo è drammaticamente impressionante, in altri casi magari è più piccolo. Faccio parecchia attività  formativa in questo periodo: due laboratori al circolo Carichi Sospesi...

Due?

Sì, doveva essere uno ma c'era troppa gente: non si può stare dietro a 30 persone contemporaneamente, così abbiamo diviso il gruppo in due. Poi faccio un laboratorio a Chioggia e uno a Piove di Sacco, più orientato sul racconto.



"Omero non piange mai"



L'anno prossimo debutti come autore. Quando hai sentito che era il momento di affrontare la scrittura di un testo?

Ho sempre avuto l'idea di comporre un testo. Man mano che mi avvicinavo al teatro di racconto, l'idea di scrivere un testo di racconto è emersa come quella più probabile. Anche per motivi bassamente economici: per produrlo, se hai sei attori poi li devi pagare.
Ho dovuto rileggere seriamente l'Iliade per un laboratorio fatto con l'A.T.I.R. diretto da Serena Sinigaglia, una regista bravissima ma con dei metodi che non andavano bene per me. Il pregio principale del laboratorio è che ho dovuto leggere seriamente, non più da adolescente, l'Iliade. Ho scoperto che c'erano dei passi dell'Iliade che potevano contenere tutte le cose che volevo raccontare: cose importanti per me, cose importanti per tutti. Temi che sentivo, come la violenza, la forza, il dolore per la perdita, che io ho provato fortissimo. Tutte queste cose ci stavano dentro questo testo, che in più aveva una sua bellezza che secondo me andava raccontata. In realtà  col senno di poi si è scoperto che quasi tutti la pensavano così: io credevo di essere intelligentissimo, e invece è arrivato Baricco, la Sinigaglia ha fatto le Troiane, chiunque sta facendo l'Iliade!

Ma c'è il tuo apporto personale...

Qui c'è un mio apporto personale fortissimo, anche piuttosto difficile da tirar fuori, che grazie a Dio esce attraverso le parole di Omero. E' una profonda meditazione sulla violenza, la rabbia, la forza intesa nel senso più ampio, compreso quello della prevaricazione, la paura. Sono tutte tematiche che io sentivo tantissimo. Questo è un periodo in cui tutti le sentono, e così anch'io. In più l'amore tra gli esseri umani in situazioni estremamente difficili. Canalizzava benissimo cose che io sento. Ma mi chiedevo sempre: ha senso che io racconti queste cose che sento io personalmente, cioè interessa al pubblico? Perché dovrebbe pagare un biglietto? però quando questa persona che dice queste cose, e le dice con parole meravigliose, è Omero, beh allora forse qualcun altro le può condividere. Da lì è partito il progetto. Ho avuto la fortuna enorme che Laura Curino mi abbia aiutato con la drammaturgia perché effettivamente c'è un lavoro faticosissimo da fare sulla scrittura del testo, se vuoi che sia un buon testo, ed è proprio di limare le cose, tornarci, risistemarle, leggere ad alta voce le cose, sentire se funzionano, rileggerle, scriverle di nuovo, ricomporle...cose che non venivano fuori alla prima lettura verranno fuori alla sesta. Un lavoro artigianale, nel vero senso della parola, che ancora non conoscevo. Avrei fatto un lavoro molto più rozzo senza l'aiuto di Laura, e lei è stata gentilissima e bravissima. Si è messa con una disciplina ferrea e nonostante abbia tremila impegni è riuscita a trovare del tempo anche per questa cosa.

Finora hai fatto due prove aperte per il pubblico del tuo spettacolo "Omero non piange mai". Qual è stata la reazione del pubblico? E come è cambiato il testo dopo quelle esperienze?

C'è stata una prima prova aperta in un ambiente estremamente amichevole, che è il circolo Carichi Sospesi, e l'impressione è stata buonissima. La prima cosa che mi è venuta in mente è stata: bisogna lavorare bene sul rapporto con il musicista. Questo è venuto fuori chiaramente perché eravamo quasi separati, ma questo si può sistemare in corso d'opera. Un'altra cosa che ho notato, e non è certo un caso, è che c'erano dei momenti paoliniani. Io naturalmente ho ben presente l'esempio di Paolini, anche se in realtà  è un po' più complessa la cosa perché ho presente l'esempio di Paolini, di Laura Curino, di tutti quelli che fanno capo a Vacis, che hanno lavorato al Teatro Settimo di Vacis, e loro mi piacciono tantissimo, cioè mi danno sensazioni fortissime quando ascolto i loro racconti, quindi credo sia abbastanza naturale, che anche quasi inconsciamente nel delivery di questo testo siano venuti fuori dei momenti vacisiani, più che paoliniani. Però certo è un rischio: se fai una cosa in Veneto che assomiglia a Paolini, tutti diranno "ecco, ha copiato da Paolini". Quindi bisogna stare attenti.

Com'è andata la seconda prova?

La seconda prova è stata in un ambiente meno amichevole, più casalingo nel senso che è il mio teatro (quello di Piove di Sacco), però in cui c'erano anche operatori del settore, gente che mi era amica ma non veniva da amica, nel senso che veniva professionalmente a vedere. Lì c'è stata la conferma che la linea è giusta, ma anche un profondo lavoro di riduzione del testo, soprattutto della parte omerica, non perché risultasse pesante, ma perché l'accumulo di metafore che c'è in Omero poteva oscurare la bellezza di queste metafore. Se io metto trentasei volte "come il leone che..." può essere che a un certo punto si perda un po' l'effetto straniante di queste metafore, che sono veramente belle e potenti. Una cosa altrettanto importante, che riguarda già  una fase ulteriore, è quella del "è tempo di dare carne a questo testo". Le prove aperte sono state delle letture, è tempo di mettere in pancia questo testo, come si dice, e vedere quali sono i personaggi che emergono, i movimenti, e finalmente qual è il rapporto con la musica.

Parliamo allora dei tuoi musicisti, Francesco Basso e Sergio Marchesini.

Francesco Basso ha composto le canzoni, purtroppo non è in scena, anche se è un vero animale da palcoscenico, però non ci stava in questa cosa. Mi ha dato una mano e si è prestato con generosità  alla composizione delle canzoni. Le canzoni sono ancora in fase di studio, però ci sono credo tre canzoni che verranno composte da me e Francesco e verranno cantate nel corso dello spettacolo, più una che è We'll meet again che mi piace molto. E' una canzone molto dolce, americana di cui io mi sono innamorato nella versione cantata da Johnny Cash, che è bellissima. Con Francesco lavoriamo, abbiamo anche fatto una regia per uno spettacolo di teatro ragazzi, ci conosciamo abbastanza bene ormai. Ho poi trovato un musicista di sensibilità  inaudita, Sergio Marchesini, che è veramente bravissimo. Suona nella Piccola Bottega Baltazar, ed ha un orecchio, una sensibilità  teatrale elevatissima, che non trovi tanto facilmente. Mi trovo molto bene con lui. Non è sempre facile lavorare in tanti su una cosa, però è fondamentale. Io non ho delle competenze e non ho nessuna intenzione di rovinare uno spettacolo perché mi metto a fare tutto io. Cerco di acquisirle, però ci vuole tempo, pazienza. Nel frattempo la cosa migliore è parlare con qualcuno che se ne intende, ne capisce e ti può dare una mano. Queste persone le ho trovate. Tra l'altro in questo periodo i racconti stanno fiorendo dappertutto, e la cosa a me fa piacere perché a me il teatro di racconto piace. Non lo vedo come una moda: è una modalità  di teatro che è giusto abbia un suo valore e una sua diffusione. Però c'è un fatto: moltissimi di questi racconti hanno come accompagnamento la fisarmonica. Questo mi ha mandato un po' in crisi perché ho pensato "anch'io c'ho la fisarmonica, allora tutti penseranno: ecco, l'ennesimo raccontatore con la fisarmonica". Però ho pensato: preferisco scegliere un altro strumento a caso e lavorare con qualcuno che non conosco oppure scegliere la fisarmonica la cui sonorità  secondo me è quella giusta per queste cose e lavorare con uno che stimo e con cui mi trovo molto bene? Ovviamente la scelta non si poneva nemmeno.


Teatro di racconto



Teatro di racconto e teatro classico, di recitazione. Due modalità  di fare teatro, in cosa si differenziano e quali invece sono i punti in comune?

La domanda è enorme, da tesi di laurea! La questione in realtà  è semplicissima, se vogliamo andare alla struttura profonda ed eliminare la superficie: il teatro di racconto è la radice di ogni possibile teatro, perché i racconti li frantumi ed hai un tipo di teatro, i racconti li metti completamente in scena in prima persona ed hai un altro tipo di teatro...Però raccontare storie è una necessità  profonda degli esseri umani che prende tante forme. Il motivo per cui adesso è ritornato nella sua forma originale, e originaria, è che ci sono dei bisogni, delle cose, che evidentemente il teatro di tradizione aveva un po' dimenticato. Secondo me uno di questi fattori è la rottura della quarta parete, cioè il fatto che il narratore renda costantemente evidente l'importanza della presenza del pubblico, rompa costantemente il muro che separa palco- pubblico per interrogarlo, per parlargli. Una tradizione che conosciamo già  da Dario Fo, e che Paolini ha usato, e che tutti hanno usato, ed è giusto che sia così: non perché si tratta di copiare, ma perché il narratore col pubblico deve avere un dialogo. Il narratore ad un certo punto diventa catalizzatore di un'attenzione di una comunità . Se non si crea attorno a lui una comunità , se la gente va a vedere i narratori come si guarda la televisione, non funziona la cosa, muore il racconto. Quindi è giustissimo come fa ad esempio Paolini far salire il pubblico sul palco, giustissimo ad esempio che se c'è un telefonino che trilla non è che faccio finta di niente come nel teatro di tradizione, ma guardo il "colpevole" e gli dico "Ciccio, spegni il telefonino". Quello che c'è, come dice Laura Curino, c'è. Non si ignora niente. E' una necessità  profonda che la gente sempre più sta sentendo, ovvero sentirsi parte di quello che sta succedendo: essere parte di un gruppo che per una sera crea qualcosa. Radicalmente è questo: il teatro di racconto è la radice di tutti i racconti possibili. Il teatro di tradizione è uno sviluppo, molto legato ai suoi tempi, e quindi si vede che perde un po' di colpi. Il teatro di racconto nasce, come dice Baliani, da una crisi del teatro. Baliani è un po' pessimista su questa cosa. Per quanto io lo stimi in maniera enorme, tenderei ad essere più ottimista su questa cosa: secondo me è una crisi positiva. Non credo che finita questa crisi il teatro di racconto si estingua, semplicemente muterà , cambierà  il modo di raccontare. Non è un caso se alla Biennale di quest'anno abbiamo visto finalmente due narratori.


Il teatro a Padova




Parliamo del teatro a Padova.

Padova è una città  strana perché ha una marea di realtà  teatrali: amatoriali, semiprofessionali, ecc... che vanno in grandezza dal Verdi, che assorbe risorse come un'industria in fallimento, alla realtà  con due componenti che fa le letture nelle biblioteche. Non vorrei esagerare, ma secondo me si tratta di migliaia di persone che fanno teatro. Questo è il lato positivo. Il lato negativo è che sono estremamente frammentate queste realtà , non comunicano tra di loro, non hanno una piattaforma comune con cui trovarsi e discutere e quindi frammentano l'attività  teatrale. Non solo: spessissimo uno non va a vedere quello che fa l'altro, e questa secondo me è una gravissima perdita. Non permette a Padova di canalizzare risorse immense, magari collegate anche all'Università , e quindi rimane sempre un brulichio di cose piccole, in cui spesso vedi cose molto interessanti che però poi non riescono mai a realizzarsi perché si annullano tra di loro. Il tutto secondo me oppresso da questo enorme fabbricone del Verdi che ciuccia, ciuccia, ciuccia senza restituire.

Ci sono buone occasioni di formazione a Padova?

Quel che ho detto vale anche per l'attività  formativa. Chiunque voglia cominciare a fare teatro ha un'immensa quantità  di risorse a disposizione, e può gustare un po' di tutto, perché può provare il teatro del TPR, può andare al Tam, Abracalam, Teatro Continuo, può andare al Verdi che adesso ha l'attività  formativa di Terrani. A livello "inizio a fare teatro" c'è una marea di possibilità , anche buone. Non così se vuoi farlo di professione, non così se vuoi ampliare la tua mente, non così se vuoi lavorare: lì le cose cambiano radicalmente. Adesso c'è una grande iniziativa, che fanno i ragazzi dei Carichi Sospesi: un gruppo di teatranti che ha deciso che mancava qualcosa a Padova, e si vede che hanno beccato una vena perché il locale spesso è pieno. C'era bisogno di un posto dove si va a bere una birra, si chiacchiera, si va a vedere uno spettacolo, si vedono cose nuove. A me piace molto, dovrebbe avere più spazio, essere aiutato dal Comune, essere più grande. Ma sicuramente troverà  delle resistenze, la gente non si renderà  conto, difenderà  la propria parrocchietta. Mi dispiace perché ci vorrebbe un momento di dialogo. Non dico tra piccole realtà  e Verdi, perché quello non so quanto sia credibile, ma almeno tra realtà  medio-piccole, quello dovrebbe esserci.

E in quanto a spettacoli?

Ribadisco quello che ti ho appena detto. Io vedo cose interessanti a Padova. Vado al Tam e le vedo. Il lavoro sui carcerati del Tam è grandioso: Cinzia Zanellato ha fatto una cosa bellissima e socialmente...mmm...che vivifica; ai Carichi ho visto cose bellissime che mi hanno emozionato, anche cose che non sarei andato a vedere in altri parti per bigotteria, lo ammetto, però in un contenitore così neutro sono andato a vederle. C'è Beppe Casales che ha fatto il suo racconto, a me è piaciuto. Ho visto cose veramente belle. Il problema è sempre quello: sono cose piccole. Non riescono ad uscire, a darsi una produzione un po' più organizzata, che non riescono ad avere dei fondi, e questo mi dispiace moltissimo perché le risorse ci sono tutte. Bisognerebbe lavorare per creare qualcosa più ampio. Quindi spettacoli ne vedo. Poi adesso c'è questa cosa di Arteven [la rassegna Arti Inferiori], è un'ottima cosa. Non lo dico perchè ci sono io! E' una splendida rassegna. E' anche in certo senso una microsfida al Verdi, che invece si ostina a fare sempre le stesse cose. Qualche anno fa aveva tentato di fare una stagione più giovanile assieme a quella tradizionale, ma poi non l'hanno più ripetuta.

Il festival Itaca, di cui sei uno degli organizzatori, tornerà  a Padova?

Il festival Itaca [per informazioni visita il sito dell'associazione Tonicorti] quest'anno è a un punto di svolta molto importante. Può essere che torni a Padova, era nato per Padova e anche se abbiamo trovato un'ospitalità  meravigliosa ad Abano, molti di noi credono che debba ritornare a Padova. Vuole anche crescere, per questo stiamo lavorando già  perché vorremmo che fosse una cosa più integrata nella città , più articolata nel programma. Finora la parte dominante è stata quella video e musicale, noi teatranti vorremmo che la parte teatrale avesse maggiore rilevanza e quindi dobbiamo lavorare noi. Ci vuole un lavoro più intenso anche per la parte teatrale, che presenti nuove produzioni...anche se finora abbiamo fatto secondo me un buon lavoro, perché abbiamo presentato cose in anteprima che a Padova non si vedevano: Ascanio Celestini quando ancora non era famosissimo, Giuliana Musso con l'anteprima del suo spettacolo Sexmachine, Baliani con una cosa che non portava più tanto in giro, Corpo di Stato, poi l'ultima cosa che abbiamo fatto noi dell'associazione Evoè, Scandisk di Vitaliano Trevisan. Non sono mancate le cose buone. Ma vorremmo farle ancora meglio, magari nate da progetti ad hoc per Itaca.

Arianna Pellegrini

Flavia Vaglio. Il coraggio del morire

Flavia Vaglio. Il coraggio del morire


La tragica, straziante perdita della figlia Flavia diventa per la pittrice Lucia Vaglio una testimonianza coraggiosa e altissima attraverso un ciclo di opere che creano un momento di confronto sui temi della sofferenza e del lutto.

28 Novembre 2004 al 9 Gennaio 2005
Scuderie di Palazzo Moroni- Via VIII febbraio, Padova

Orario: 9:30 "€“12:30 / 15:30 "€“ 19:00, Chiuso il lunedì.
Ingresso libero.

INAUGURAZIONE
Sabato 27 novembre alle ore 17:30



Attraverso un linguaggio dal segno incisivo, dal colorismo vivido e chiaroscuri taglienti, forme decise, volumi netti e masse compatte, Lucia Vaglio trasmette, comunica, urla il suo dolore, l"€™incolmabile vuoto, la perdita, l"€™assenza, la separazione forzata, il rimpianto crudele, la trista fatalità .

Sono stati dell'€™animo, sentimenti, emozioni che diventano corali e ci portano a riflettere sull"€™esistenza e sulla fragilità  della condizione umana.

Le tele esposte rivelano inquietudine, ribellione, denuncia, un bisogno disperato di fisicità , il tentativo, decisamente riuscito, di ridare voce a questa splendida ragazza che ritroviamo più volte nella sua piena corporeità : nel momento di riposo dopo la danza, nel volto pensoso, nel ritratto di bimba, nella veste di affettuosa sorella, di donna amante e amata.

La mostra rappresenta così un"€™invocazione al mondo per non dimenticare, un monito a rinnovare l"€™impegno nell'€™educazione, nella ricerca e nella prevenzione, a donare a operatori, famiglie e malati le risorse necessarie ad affrontare e superare i limiti di una difficile condizione.

Questa mostra toccante e unica, sostenuta anche dall'€™A I L - Associazione Italiana contro le Leucemie, grazie alla vendita di una parte delle opere vuole diventare aiuto concreto ai bambini colpiti dalla leucemia e alle loro famiglie. E"€™ questo un messaggio di alto valore umano e civile, che si aggiunge a quello che Lucia Vaglio esprime con grande sensibilità , dignità  e forza con i suoi dipinti.

Tavola rotonda "Dalla via della seta alla via del carbone"

Tavola rotonda "Dalla via della seta alla via del carbone"

Nell"€™ambito della mostra Patrizia Bonanzinga. LA VIA DEL CARBONE avrà  luogo la tavola rotonda "Dalla via della seta alla via del carbone".

giovedì 25 novembre 2004 - ore 17:00
Galleria Sottopasso della Stua (Largo Europa)

Interverranno

Maurizio Scarpari
Professore Ordinario di Lingua Cinese Classica e Pro Rettore Vicario all'€™Università  Ca"€™ Foscari di Venezia

Guido Samarani
Professore Straordinario di Storia e Istituzioni dell'€™Asia Orientale
all'€™Università  Ca"€™ Foscari di Venezia

Enrico Gusella
Coordinatore Centro Nazionale di Fotografia

e l"€™artista Patrizia Bonanzinga

Aldo Pastore - fascino del mito

Aldo Pastore - fascino del mito

Aldo Pastore - fascino del mito

Il linguaggio artistico di Aldo Pastore si basa fondamentalmente sul disegno. Poi l"€™artista allarga le proprie esperienze alla pittura, alla scultura, alla ceramica, all'€™incisione.

Sala Samona"€™ "€“ Banca d"€™Italia "€“ Via Roma "€“ Padova
14 novembre "€“ 19 dicembre 2004
orario 9.30/12.30 "€“ 15.30/19.00
Ingresso gratuito, chiuso al lunedì
Inaugurazione: 13 novembre 2004 alle ore 18:00

Grazie alla sua abilità  nel gestire il disegno, Pastore riesce a creare (e qui ha certamente colto la grande lezione dei futuristi) la sensazione del movimento e della trasformazione (che alla fin fine è movimento nella forma) nelle figurazioni delle sue opere, facendosi assistere in una sola immagine alle varie fasi di un"€™azione.

Quel disegno poi spesso diventa pittura grazie all'€™arricchimento a mezzo di chine, inchiostri vari (spesso adopera anche quello tipografico), acquerello, partendo sempre da quella che lui chiama la sua tricomia: il rosso, il blu, il giallo. Segue poi un altro intervento, o fase, nella costruzione dell'€™opera: graffiti veri e propri, nel senso di togliere parte della materia applicata con punte varie, e inserzioni di tipo calligrafico, così che il lavoro originario viene completamente sconvolto in un continuo rifiorire e intersecarsi di segni che si sovrappongono al colore o che poi dal colore vengono sommersi.

Il risultato finale è che il soggetto dell'€™opera sembra emergere (o immergersi) da (in) uno spazio caotico, che può essere letto come la rappresentazione di questo mondo senza più direzione nel quale viviamo.

Questa lettura viene anche favorita dalla connotazione fredda e acidula che gli inchiostri, anche se acquerellati, conferiscono all'€™opera.

Pastore resta fedele ad una vocazione che lo accompagna da sempre. Egli è un narratore e sviluppa ogni suo racconto in cicli che possono essere costituiti da poche o da numerose tavole che comunque sviscerano fino in fondo l"€™argomento che egli affronta. Ogni tavola è un capitolo del suo racconto e in ogni capitolo approfondisce tutte le tematiche ad esso inerenti.

Per poterlo fare si documenta in maniera puntigliosa e precisa studiando a seconda dei soggetti: storia, leggenda, mito, costumi, tradizioni, natura e forma di attrezzi ed utensili, caratteristiche particolari di mestieri e comportamenti. Succede così che ogni ciclo non è solo apprezzabile per le sue qualità  artistiche (innegabili per l"€™originalità , l"€™inventiva, l"€™equilibrio compositivo, l"€™abilità  tecnica), ma diventa anche un documento importante di antropologia culturale.

Così nel ciclo dedicato all'€™albatro Pastore mostra le tecniche di pesca (e quindi di ammaraggio) di questo stupendo uccello; in quello dedicato alla fenice ne fa rivivere la leggenda risalendo anche alle origini della stessa; in quello dedicato all'€™astrofisica illustra movimenti e caratteristiche dei pianeti corredati da studi e strumenti ad essi dedicati. E così via per i cicli dedicati allo sport, ad Icaro, ai lavori e mestieri antichi, alle devastazioni atomiche con le mutazioni genetiche da esse provocate.

Sono opere che richiedono un lavoro enorme non solo di esecuzione, ma anche di preparazione.

E malgrado ciò Pastore ha una produzione vastissima che, come detto dall'€™inizio, si allarga anche alla scultura ed alla ceramica ove dimostra di possedere una manualità  eccezionale unita ad una altrettanto creativa fantasia che gli permette di scoprire forme (si guardino le sculture su legni fossili) dove gli altri vedono solo degli oggetti informi.

Dietro a tutto questo lavoro sta una poetica che nasce da un malessere diffuso ormai nella nostra società : l"€™incertezza del vivere e del futuro; la consapevolezza che l"€™uomo sta distruggendo se stesso ed il proprio mondo.

La denuncia di questo malessere attraverso l"€™espressione artistica comporta però anche un"€™apertura alla speranza: la creatività  offre all'€™uomo la possibilità  di andare oltre il contingente, di offrire alternative, di valorizzare situazioni e comportamenti che ricordano che non tutto è negativo.

Ed è in questo che Pastore si riscatta dalla tentazione di un pessimismo totale.

Cina: sulla via del carbone

Cina: sulla via del carbone

Le miniere di carbone: altra faccia faccia della medaglia del progresso e della ricchezza. Pubblichiamo due brani tratti da "The Road to Coal” di Patrizia Bonanzinga, fotografa che ha soggiornato a lungo in Cina e racconta la complessa realtà  di quel paese nella mostra fotografica "La via del carbone".

Cina: la miniera più grande del mondo


di Paolo Longo

La cronaca racconta che alle 8:50 di mattina di una fredda giornata d'inverno 24 minatori che lavoravano a 300 metri di profondità  in una miniera di carbone nella regione autonoma dello Xinjiang Uygur, nel nordovest della Cina, sono rimasti bloccati a causa di un improvviso allagamento.

L'agenzia di stampa cinese ufficiale Xinhua riferisce così gli avvenimenti successivi: "Immediatamente dopo l'allagamento, la società  proprietaria della miniera ha convocato una riunione urgente per lanciare l'operazione di salvataggio che è iniziata immediatamente"

Dei 24 uomini rimasti sotto terra 15 erano bloccati nello stesso tunnel ed è lì che si sono concentrati gli sforzi. Dopo ore di lavoro i soccorsi sono arrivati a soli tre metri da loro ma un gigantesco blocco di roccia li ha fermati. "Da questa parte del tunnel sentivamo le voci sempre più deboli dei minatori, racconta uno dei soccorritori, siamo riusciti a fare arrivare loro un messaggio, restate calmi, cercate di respirare lentamente e di non fare sforzi per non consumare l'aria rimasta". I lavori sono andati avanti senza sosta e finalmente alle sei del pomeriggio i soccorritori hanno ristabilito la ventilazione nel tunnel e alle tre di mattina i 15 sono stati salvati.

Solo il giorno dopo la cronaca riporterà  che nell'incidente ci sono stati sei morti.

Questa è una notizia che non manca mai nei giornali cinesi. Gli incidenti nelle miniere di carbone fanno ormai parte della vita di ogni giorno in Cina, sono l'altra faccia della medaglia del progresso e della ricchezza.

La Cina ha bisogno del carbone per muovere le sue fabbriche, per illuminare le sue città , per riscaldare le sue case, per produrre il suo acciaio. Le previsioni parlano per il 2004 di 1,7 milioni di tonnellate di carbone estratte per coprire il 70 per cento del fabbisogno energetico e ogni tentativo di migliorare la sicurezza nelle miniere e di render meno inquinante il carbone si scontra con la realtà  di un paese che rischia in ogni momento una vera e propria "carestia energetica".

L'industria mineraria carbonifera cinese è la più grande del mondo, con oltre 430.000 piccole e grandi miniere, controllarle tutte è impossibile, imporre a tutte standard di sicurezza ancora di più. Il primo ministro Wen Jiabao ci ha provato, ordinando controlli a tappeto e la chiusura di migliaia di impianti, ma si è ritrovato con un drastico calo della produzione proprio mentre al contrario aumentava la domanda da parte di un'economia che continua a crescere troppo
velocemente. E così un po' alla volta molte delle miniere chiuse sono state riaperte, alcune clandestinamente, e il numero degli incidenti è tornato a crescere.

La Cina combatte una battaglia decisiva per raggiungere un equilibrio tra le risorse disponibili e il tasso di crescita, prova ad allargare la scelta delle fonti energetiche utilizzate, costruisce dighe gigantesche, sogna di realizzare 19 centrali nucleari in 15 anni, punta ad accelerare l'accantonamento di riserve petrolifere strategiche e a rendere operativo al più presto un oleodotto per il gas naturale che attraverserà  il paese da est a ovest; ma la dipendenza dal carbone resterà  sempre molto forte, secondo tutte le previsioni il minerale coprirà  all'incirca il 60 per cento del fabbisogno energetico ancora per i prossimi 50 anni.

Con un problema aggiuntivo, il costo ambientale altissimo. Il carbone è da sempre la fonte energetica fondamentale della Cina ma è negli ultimi due secoli che la sua estrazione ha raggiunto livelli industriali, e si vede. L'inquinamento oggi nelle città  di questo paese è tra i più alti del mondo. L'ONU ha calcolato che l'inquinamento costa alla Cina tra il 3,8 e il 5 per cento del Prodotto Interno Lordo, mentre gli studi epidemiologici avvertono che già  oggi le malattie respiratorie sono la causa del 25 per cento delle morti premature: 700.000 persone muoiono ogni anno per l'inquinamento ambientale provocato dall'uso di carbone che serve al paese per correre e alla gente per cucinare.
Insomma ancora per molto tempo la Cina dovrà  scegliere tra la crescita e l'aria pulita, tra lo sviluppo e la fine degli incidenti nelle miniere.

"Troppi incidenti come quello dello Xinjiang, scriveva uno dei partecipanti a una chat, sto diventando indifferente".

Da "The Road to Coal" di Patrizia Bonanzinga
Hopefulmonster, Torino 2004










La via del carbone


di Patrizia Bonanzinga

... Sono ritornata nello Shanxi, sulle orme del "mio" carbone. Sono entrata nelle piccole miniere che si aggrappano alle pareti polverose dei canyon che penetrano in profondità  perpendicolari alla strada maestra. Sugli spiazzi sovrastanti, attorno alle piccole miniere, i piccoli villaggi dei minatori. La cosa più stupefacente in quei luoghi, e di cui a tutt'oggi non riesco ancora a capacitarmi, è stata per me sin dall'inizio il loro vuoto. Già  il senso d'abbandono che regna nei villaggi, costruiti secondo il classico schema geometrico, è oltremisura deprimente, ma ancor più lo è l'aspetto delle facciate delle case, dietro le cui finestre tutto sembra immobile. Non riuscivo a immaginare chi potesse vivere in quelle desolate costruzioni, benché, d'altra parte, si trovassero nei cortili interni un gran numero di bidoni e oggetti di vario tipo, segni di presenza. Ma la cosa ancor più stupefacente, in qualsiasi desolato villaggio mi trovassi, è il riconoscere l'evidenza dei simboli della cultura cinese: l'arco memoriale, spesso in plastica o in ferro, che accoglie il visitatore; le scritte di buon auspicio attaccate ai lati delle porte; le pietre, scolpite anche in modo rudimentale ma sempre a coppia, raffiguranti i più strani animali; un busto di Mao Ze Dong, che rimanda al mito degli antenati, al centro di uno scaffale accanto alle ceneri di qualche parente; la ricorrenza di oggetti cifrati e numerati secondo regole fisse; la geometria dei villaggi che vista dall'alto rimanda alla calligrafia della scrittura cinese. La notte, che tenessi gli occhi aperti oppure chiusi, continuavo a vedere le immagini di quei luoghi: i mattoni polverosi delle case, le vetrine dei punti di vendita, le prospettive dei vicoli nel mio mirino, i portoni chiusi, la polvere di carbone tra le pietre del selciato, i mucchi di carbone davanti alle porte, il silenzio rotto soltanto dal sibilo del vento. Per quanto io possa risalire indietro col mio pensiero, mi sono spesso sentita come priva di un posto nella realtà , come se non esistessi affatto, e mai questa sensazione è stata così forte quanto durante i miei viaggi in quei territori, lungo la mia "via del carbone". E per me non esiste creazione possibile se non in questa indeterminatezza.


Da "The Road to Coal"
Hopefulmonster, Torino 2004

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