Ascoltare il pubblico. Intervista a Marco Paolini

Ascoltare il pubblico. Intervista a Marco Paolini

Ascoltare il pubblico. Intervista a Marco Paolini

Cosa vuol dire comunicare con il pubblico? Qual è il ruolo della parola e dei gesti? Come fa l'attore a mettersi in relazione con gli spettatori? E come può emozionare e coinvolgere senza abusare della propria posizione?
Marco Paolini è nato a Belluno nel 1956. E' autore, attore e regista. Il suo ultimo spettacolo teatrale è Il sergente, un omaggio a Mario Rigoni Stern. Chiara D'ambros, che ha già  parlato del teatro di narrazione nelle pagine di PadovaCultura, ha seguito a lungo Marco Paolini nei suoi spettacoli e ha avuto modo di intervistarlo nel 2003 al Teatro Civico di Schio, durante le prove per i racconti preparati per la trasmissione televisiva Report.
Questa intervista è un contributo prezioso per capire meglio un modo diverso di fare teatro, attraverso il punto di vista di un grande narratore.

Dicevi che in questi giorni stai "mastegando" i racconti. Mi parli di come ti metti in relazione con il pubblico, del tuo ascolto del pubblico?

In generale, più si è insicuri, più si prova a dominare il pubblico. Chi ha un atteggiamento domatorio fa così perché non ha un altro modo di tenere la situazione sotto controllo: è come nell'illusionismo dove tutto è fondato sul fatto che non si deve spezzare mai una catena, e quindi c'è una carica, una suggestione. Io da ragazzo ero, credo, più portato a quel tipo di atteggiamento: a dominare il pubblico. Con l'età  e con l'esperienza c'è sempre meno bisogno di fare, perché si è, e quindi pian piano ho imparato che i meccanismi per reggere l'attenzione non sono solo di tipo attivo ma sono anche passivi: sono meccanismi di ascolto, che producono comunque un filo, un'empatia, un qualcosa di vivo tra chi fa e chi è lì per ascoltare. Di solito in un racconto nuovo ho bisogno... Quando racconto le prime volte in pubblico scopro delle cose, cioè scopro le reazioni. Una parte dell'attenzione è rivolta all'ascolto. Altrimenti faccio una cosa, che sembra banale ma non lo è: mi registro e in un secondo tempo mi riascolto. Evidentemente la percezione che hai mentre fai una cosa è diversa da quella che hai riascoltando. Io per esempio mi annoio riascoltando, quindi è meno positiva come percezione, mentre è più interessante e più intenso quello che si riesce sentire facendo. Senza esagerare, perché non puoi fare lo spettatore, o il regista: devi fare l'attore che ascolta. E le cose che si ascoltano per le prime volte sono così stupefacenti... per esempio il silenzio, oltre all'applauso, la risata, l'intensità  dell'ascolto danno delle grandi emozioni e insegnano tantissimo. Ti insegnano la strada giusta per raccontare una cosa, perché sicuramente ce n'è una più giusta delle altre. Quando pian piano hai trovato quella strada, ci sono ancora delle variabili. E' come la strada di casa, da casa al lavoro: puoi ancora trovare dei pezzi che non hai mai fatto oppure ci sono dei cambiamenti, ma hai imparato a fare così bene quella strada che camminando puoi leggere in giornale o fare delle altre cose. Ecco, in qualche modo accade un po' anche questo: posso concentrarmi su una nota o su un dettaglio o su un'immagine, posso concentrarmi sul viso di una persona. A volte si dialoga con pochissime persone in mezzo alle altre, per piacere, per sfida o per dispiacere, ma io credo che sia proprio un esercizio di vitalità  che fa sì che siccome le facce cambiano, così come cambiano i luoghi, è difficile che si faccia una replica di qualcosa che si è già  fatto. Per quanto riguarda i racconti, che si fanno sempre guardando in faccia il pubblico (a differenza degli spettacoli che hanno la quarta parete, dove l'interpretazione ti fa staccare dal pubblico), io ho bisogno di parlare e quindi per me la variabile pubblico, assieme alla variabile luogo, sono sicuramente qualcosa che condiziona, ma condiziona di più per esempio la musica, il ritmo di quello che faccio, l'esecuzione, di solito non il contenuto. Per me è molto interessante cercare di non lavorare troppo e solo nella ricerca del consenso del pubblico, perché è chiaro che va bene che c'è anche quello, ma non puoi giudicare il tuo lavoro sulla base del consenso, se no ti fai una specie di parallelo dell'auditel, che poi ti frega perché non è detto che... per esempio questi racconti qua non sono accattivanti, e io soffro un po', perché sto muovendomi su cose che sono diverse da quelle che farei io. Di solito sono cose vive. Qui il pubblico è così lontano che io non sento nessuna reazione e anche dal pubblico si percepisce questa cosa: non sento ridere, non sento sospirare. Non so se le donne, a storie così maschili, sentono oppure si staccano, e allora la presenza è come un dialogo. Per questo i primi spettacoli li faccio sempre con tutto il pubblico visibile, molto vicino. Solo quando conosco bene lo spettacolo posso allontanarmi. A volte resto lì, ma aumentano gli spettatori, così i primi sono vicini come i primi delle prime volte, e gli ultimi sono lontani. Quei venti metri di distanza sono... tanti!

Hai fatto spettacoli diversi in luoghi diversi: mi parli della relazione con il luogo in cui viene fatto lo spettacolo e come il luogo può cambiare il linguaggio?

Cambia, in due modi. Da una parte si possono usare i luoghi come dei set cinematografici, quindi usare quello che ti offrono come scene naturali, come quando lavori in una stazione dei treni o su una diga oppure in un campo da rugby. Dall'altra si può lavorare nei luoghi e in questo modo invece di dover descrivere, per esempio invece di descrivere un campo da rugby, invece di evocare come faccio di solito, agisco dentro la cosa. Quindi devo asciugare tutta l'enfasi che di solito serve per creare il luogo, perchè so che ce l'ho già  dietro. Devo essere più asciutto, più concreto, perché agisco dentro una cosa che gli altri già  vedono. Invece è diversissimo il fatto di esplorare altri territori facendo teatro nelle scuole e in luoghi non teatrali. E' faticoso perchè in questi posti trovi la gente che di solito non va a teatro. E' un modo di togliersi la pigrizia: invece di essere solo scelti si va con il rischio di scegliere qualcuno.

Perché è così importante essere vicini al pubblico?

Lo dicono già  i maestri del teatro, Stanislavskj e tutti gli altri: l'attenzione è un fatto di cerchi, cerchio piccolo cerchio medio e cerchio grande. E' inutile cercare di governare un cerchio grande di spettatori se sei capace al massimo di reggere il cerchio piccolo. Io adesso sono capace
di fare il teatro davanti a due o tremila persone. Ho imparato, all'inizio me la sarei fatta addosso. Poi invece scopri una regola dei grandi numeri, che mille persone si comportano come una mentre cento si comportano come cento. Quindi è più facile far ridere mille che cento, questo lo sanno tutti i grandi comici. Invece per quanto riguarda il mio lavoro, che non è fondato sul consenso e sulla risata ma anche su meccanismi come: "capiranno?", ho bisogno di sapere se interagire più o meno. Prima di fidarti a farlo davanti a mille, devi aver imparato gli stessi meccanismi che servono a una maestra a governare una classe di quaranta alunni invece che una di venti. Diventi bravo nel tempo: non credo che ci siano scorciatoie per arrivare prima a conquistare l'attenzione di un grande pubblico. Tutti i grandi predicatori prima sono stati parroci di campagna, più o meno.

E per quanto riguarda il linguaggio, il ritmo di cui parlavi prima, la sonorità  delle parole?

Il linguaggio è musica. Quindi occorre sia imparare a suonare la musica già  scritta, le poesie, i testi, la letteratura, sia imparare a improvvisare, cioè a suonare come nel jazz, e per me sono due musiche molto diverse ma mi piace l'idea di usarle tutte e due. Quando uso le parole degli altri cerco di suonare come nella musica classica, quando uso le mie posso improvvisare di più. Ma sempre se stai scrivendo, componendo o anche a volte suonando le parole degli altri bisogna ricordarsi di non usare troppe note e di non usare troppe parole, non è bella la musica se ha troppe note. Lo sai? Ti intendi di musica? Se un musicista, un compositore scrive con troppe note... se un jazzista mette dentro troppe robe è fumo negli occhi. La buona musica ha poche note e anche chi fa teatro deve imparare a usare meno parole possibile.

In che senso? Questo influisce sull'ascolto?

La poesia insegna a risparmiare sulle parole, la poesia è anche sintesi. Quando racconto tendo ad accorciare, e una volta che ho accorciato posso, per esempio, allungare un po' le pause, i tempi. Però puoi allungare un po' le pause e i tempi solo quando hai già  tolto tutte le parole che dovevi togliere, perché per me la cosa essenziale è riuscire a dire una cosa nel modo più semplice e con meno parole possibili. Gli aggettivi, per esempio: meglio uno, perchè se si scrive si sopportano due aggettivi, se si parla no. I verbi a volte si possono alterare, le frasi a volte possono essere lasciate incomplete perché è così sott'inteso quello che viene dopo che basta un tuo gesto a completare la frase e spesso il teatro è questo, un'integrazione tra i gesti e le parole che porta lo spettatore alla cosa, perché viene chiamato a finire la frase. Una frase può iniziare con una parola e finire con un gesto. Anche chi scrive fa fatica ad immaginarselo se non conosce bene il linguaggio della scena, per cui spesso gli scrittori, non fidandosi degli attori, mettono troppe parole. Bisogna a volte toglierne qualcuna.

E per quanto riguarda la parte emozionale in quello che racconti o in quello che fai?

Bisogna non essere prigionieri delle emozioni che si vivono, perché bisogna provocarle negli altri, non viverle in maniera privata. Una certa corrispondenza c'è, ma non è vero che l'emozione che vivo io è quella che passa a loro; io devo provocare in loro l'emozione, ma il modo in cui ci arrivo potrebbe essere sia attraverso la stessa emozione che vivono loro, sia attraverso un'altra roba. Il modo in cui ciascuno riesce a fare questo è un po' il segreto di ogni attore. Io non so come fanno gli altri, e del mio modo non parlo mai.

Mi parli del tuo corpo in scena?

Ah! Fa ridere, no? Non ho un corpo eroico io, ho un corpo antico. "L'attore è un corpo antico fondato sul lavoro" ho detto una volta da qualche parte. Lavoro che ti fai addosso. Ti ricordi Gelmino Ottavini che dice che nel tempo tutte le doti che non hai sviluppato si seccano? E tu sei solo quello che hai imparato a fare? Vale anche per il corpo: il corpo impara a fare, a essere quello che tu gli hai insegnato a fare. Avresti voluto ballare, avresti voluto suonar la chitarra, avresti voluto essere... Il corpo nel tempo si ricorda: stare sulla scena è come nuotare, andare in bicicletta, per cui quando sei giovane devi imparare un movimento, studiarlo. Io imparavo anche a fare sequenze complicate di movimenti perché a teatro si studia anche questo, come nella danza. Adesso è come se non ci pensassi più, è come se lo lasciassi fare, mi devo un po' fidare e lui... Io-lui, non è che parlo con il mio corpo come se fosse un altro, ma so che ormai la gestualità , per il tipo di cose che faccio quando racconto, c'è e non la devo cercare più di tanto. Chiaro che se devo mettermi a fare un lavoro su qualcosa che è completamente nuovo, come un personaggio, non posso fidarmi che i gesti e che quindi il corpo parli nello stesso modo.

Anche se la parola è dominante, è importante la presenza del corpo?

Sì, perché la parola è sempre il prolungamento di un'azione fisica e l'attore... il corpo è la somma delle azioni fisiche che fai ma è anche la cosa più evidente. Non può contraddire quello che stai dicendo il corpo. Un corpo a sacco, un corpo abbandonato rende debole quello che stai cercando di dire con intensità . Allo stesso modo un corpo che si muove in maniera nervosa innervosisce. A volte ci sono dei gesti che mi scappano, io so che mi tocco la testa, o mi accorgo che ci sono dei gesti che non ho controllato, sono scappati. Succede, ce n'è un tot di gesti casuali, su alcuni lavoro per cambiarli; altri so che faranno parte dello stereotipo di come sono io per gli altri: ormai chi mi conosce di più sa che faccio certi gesti, certe cose, mi prendono anche in giro per questo.

Dici diverse volte, in Vajont, o in Parlamento chimico: "Un po' di teatro lo devo mettere per tenervi svegli". In che senso?

Scherzo sul fatto che una parte di quello che faccio è poco teatrale, però in realtà  quando dico "metto un po' di teatro" intendo dire "metto un po' di spettacolo". So benissimo che tutto quello che faccio è teatro, se no non lo farei.

Qual è il tuo intento nel fare questo tipo di teatro di racconto?

Non lo so. Lo faccio, questo è importante.

Spesso il mantenimento dei ruoli sociali va a scapito delle relazioni o dei contenuti delle relazioni stesse. In questo senso il ruolo di narratore che assumi in scena può subire il pericolo di sovrastare i contenuti oppure si mette al servizio dei contenuti?

Il rischio c'è sempre, perché quando scopriamo che uno sa fare una cosa, siamo abituati a dargli molto potere. Chiunque si trovi in una posizione pubblica come la mia può abusare della sua funzione, e l'abuso della funzione del narratore è il demagogo. La demagogia è l'intortamento, cioè è subire il potere e il fascino di chi manipola gli eventi e riscrive le storie senza avere un senso etico di ciò. Quando svolgi un ruolo pubblico sei come un medico: sei capace di dare vita o morte, magari non alle persone, ma alle cose: devi stare attento all'uso che ne fai. Non credo che ci sia una ricetta per salvarsi o salvare quello che fai. Credo che ultimamente il rischio di fare una
puttanata ci sia e ci sarà  sempre. Bisogna essere svegli, se ci si addormenta si fanno puttanate.

settembre 2003
Schio, Teatro Civico

a cura di Laura Lazzarin

Il sito di Marco Paolini: http://www.marcopaolini.it

Le rubriche di PadovaCultura

Le rubriche di PadovaCultura

Sono diventate tre le rubriche che raccolgono i contributi originali della redazione di PadovaCultura: per averle tutte sotto'occhio abbiamo creato la sezione Rubriche
Con queste interviste cerchiamo di "tastare il polso" alla vita culturale cittadina, dare visibilità  ad artisti ancora poco noti al grande pubblico, senza trascurare quelli più affermati.

Le tre rubriche finora attivate sono:

Fermenti culturali
Non solo monumenti e musei: la cultura di una città  è fatta anche e soprattutto di persone, che hanno idee e passione. Con questa convinzione abbiamo creato la rubrica "Fermenti culturali", in cui vogliamo presentare gli artisti di Padova: coloro che, con le loro idee, la loro passione, i loro "€œfermenti"€, rendono vivace la vita culturale della città .

Appunti foresti
Padovani che ritornano, stranieri che passano. Preso in prestito dallo spettacolo di Marco Paolini, "Appunti foresti" è il titolo della seconda rubrica di PadovaCultura : una specie di diario di viaggio di chi è partito da Padova e di chi a Padova ci viene in visita, lasciando un pezzetto della sua storia.

Presenze
"Presenze" nasce per far conoscere le numerose, e diversissime tra loro, realtà  associative del territorio padovano: gruppi e associazioni culturali come luoghi di diffusione, e spesso anche di produzione, di cultura.

Matilde Montanari. Proiezioni di un desiderio

Matilde Montanari. Proiezioni di un desiderio

Primo appuntamento con la serie "Racconti di donne". Le fotografie dell'artista bolognese Matilde Montanari indagano i rapporti fra ambiente e sfera privata, la normalità  del quotidiano e l'opportunità  di interagire col reale fino a produrre immagini magiche, libere e senza tempo.

12 febbraio - 26 marzo
Galleria Sottopasso della Stua - Largo Europa, Padova

Orario: da lunedì a sabato 11:00 - 13:00 / 15:00 - 19:00
Chiuso la domenica. Ingresso libero.

INAUGURAZIONE
venerdì 11 febbraio alle ore 18:30

La mostra
L'artista
Informazioni



La mostra


La mostra è frutto di un percorso interiore di carattere autobiografico teso a raccontare e ad analizzare spazi domestici e privati. La fotografa bolognese esprime così sensazioni ed emozioni nate dentro i propri ambienti quotidiani, attraverso descrizioni interiori e personali.
Entrando in punta di piedi in un privato altrui - quello appunto di Matilde Montanari - lo spettatore è chiamato ad osservare attentamente gli innumerevoli particolari che accompagnano la vita di chi abita quelle stanze ridondanti e private. Scorrendo le foto dell'artista si avverte, infatti, l'importanza di raccontare, prima a sé stessa e poi ad altri, gli spazi vitali e gli ambienti in cui si sono susseguite le sue esperienze intime e indimenticabili, quale espressione di affetti e nostalgie.

Non è casuale, quindi, che ad un primo sguardo, la figura femminile non sia immediatamente intuibile in quanto chi osserva è richiamato da un esterno caotico e rumoroso all'interno di stanze accoglienti che parlano e profumano della vita di chi le abita.

Lentamente la percezione di questo ambiente saturo si affievolisce lasciando spazio ad altre immagini attraverso atmosfere languide e malinconiche. Lo sguardo, allora, corre fra oggetti, colori, specchi e divani, fino a intravedere la figura nuda, discreta ma consapevole, percepibile più che visibile; ed è proprio in questa prospettiva che lo spazio fotografato, così ricco di dettagli, risalta in primo piano, esaltando e definendo, sulla scena, la presenza femminile.

Il tempo, nelle immagini di Matilde Montanari, scorre in due dimensioni parallele, quella dell'osservatore e quella immobile e pensosa della donna ritratta mentre vive la sua esistenza e i suoi ambienti domestici come se nessuno la stesse osservando. La casa gialla continua ad esistere e a vivere, custodendo la giovane donna fra i suoi colori e i suoi profumi, bloccata in una dimensione immortale, mentre lo scorrere del tempo ne invecchia il corpo, e ricopre di polvere tappezzerie e ricordi.

͈ secondo questa prospettiva che gli autoritratti della Montanari risultano essere l'ideale strumento per rappresentare la dualità  dello scorrere del tempo, l'interazione fra oggetti e atmosfere domestiche, rendendo superflua ogni altra presenza che non appartenga al proprio suggestivo quadro autobiografico.



L'artista



Matilde Montanari, nata a Bologna nel 1979, si rivela al pubblico presentando nel 2000, a Trebnitz (Berlino), il suo lavoro Effetti collaterali, opera riproposta l'anno seguente a Verona.

Il suo lavoro indaga i rapporti esistenti fra l'ambiente e gli accadimenti privati; la stretta connessione che lega il privato al comune disagio frutto di relazioni sociali sempre più rarefatte e invasive, potenzialmente pericolose.

Compie uno studio sistematico sulla normalità  del quotidiano e la possibilità  di agire sulla realtà  fino a giungere alla messa in scena di atmosfere oniriche e sognanti, la ricostruzione di dimensioni magiche e surreali, libere e senza tempo. Elementi fondamentali di questi racconti sono i colori e le forme che li delineano, partendo dal punto di vista volitivo e prospettico dell'autoritratto.

Con uno di questi lavori, Proiezioni di un desiderio, vince nell'estate del 2003 il Premio Portfolio Giovane Fotografia in Italia e si classifica al secondo posto del Premio Le Logge del TFF. Nello stesso anno partecipa alla mostra collettiva Quelli di Franco Fontana a Massa Marittima.

Sempre nella città  toscana nel 2004 espone il progetto Proiezioni di un desiderio, nello stesso anno con il medesimo lavoro partecipa alla collettiva Nudi fuori a Bologna e al Portfolio Giovane Fotografia in Italia a Modena, Padova e Berlino.


Mostre personali

Proiezioni di un desiderio, Galleria Sottopasso della Stua, Padova, 2004.
Proiezioni di un desiderio, TFF, Massa Marittima, 2004.
Effetti collaterali, Centro culturale Malacarne, Verona, 2001.

Mostre collettive

Nudi fuori, Galleria Studio Ercolani, Bologna, 2004.
Portfolio giovane fotografia in Italia, Galleria Kunsthaus Tacheles, Berlino, 2004.
Portfolio giovane fotografia in Italia, Galleria Sottopasso della Stua, Padova, 2004.
Portfolio giovane fotografia in Italia, Galleria Civica di Modena, 2003.
Quelli di Franco Fontana, Castello di Monteregio, Massa Marittima, 2003.
Effetti collaterali, Trebnitz (Berlino), 2000.


Informazioni



Mostra promossa dall'Assessorato alle Politiche Culturali e Spettacolo - Centro Nazionale di Fotografia del Comune di Padova, a cura di Enrico Gusella.

Segreteria della mostra: Tiziana Piovan, Andrea Gaspari, Francesca Zonta.

Per informazioni:
Centro Nazionale di Fotografia
via Isidoro Wiel 17 - 35127 Padova.
Tel. +39 049 8721598 / 049 8722531
fax +39 049 8721598
e-mail: gusellae@comune.padova.it

Gli appuntamenti culturali del Pedrocchi

Gli appuntamenti culturali del Pedrocchi

Dedicato alla Goliardia

A febbraio due appuntamenti. Il primo è dedicato alla goliardia: una ghiotta occasione per assistere a seriose concioni! Il secondo è invece dedicato alla spesa sanitaria.

16 e 23 febbraio ore 17:30
Sala Rossini - Caffè Pedrocchi

Mercoledì 16 febbraio ore 17:30

Goliardi di ieri e di oggi

La Goliardia è un termine di oscura origine medievale....... che riappare alla fine dell´ottocento con "ordini" caratterizzati da divise, processi alla matricola e feste.....
Al Bò nascono i primi fogli studenteschi e fino agli anni 50 il Tribuno, capo indiscusso, è "eletto" a botte... ma poi si assiste all´evento della "democrazia".
Per fortuna nell´anno ´59 nasce la "Polifonica Vitaliano Lenguazza" che spande ed espande suoni e musiche nei cortili universitari e nei ritrovi cittadini.
In questi ultimi tempi a Padova si assiste ad una rinnovata vitalità  dell´ambiente goliardico attraverso la proposta di ordini, confraternite e gruppi ricchi di insegne e mantelli con l´intento di rievocare tradizioni non solo di riferimento storico e gastronomico.

L'occasione è "ghiotta" per assistere a seriose concioni tra:
Lino Bacchini Vicetribuno dell´anno ´55 (733 a. B.C.)
Leontino Battistin Tribuno 1962 (740°)
Agonia alias Giuliano Pellizzari Tribuno del 750° del Bove

Ed una schiera mansueta di goliardi, tribuni, duchi, scherani e gran maestri degli anni correnti....il tutto allietato da documenti e filmati goliardicamente permeati di storia.

Mercoledì 23 febbraio 2005 ore 17:30

La qualità  della sanità  e la libera circolazione degli utenti in Europa. Non spendere meno, ma spendere meglio.

La spesa sanitaria che nella UE rappresenta in media il 22% del totale della spesa per la Protezione Sociale, si compone di una quota pubblica e di una quota privata. In tutti i paesi i cittadini sostengono in proprio una compartecipazione più o meno consistente alla spesa. Vi sono oggi "questioni aperte" e "ipotesi di lavoro" sulle quali i vari relatori forniranno occasione di analisi: la domanda di prestazioni è contenibile? Il sistema persegue l´erogazione di volumi di prestazioni anziché obiettivi di salute? E´ ancora, un sistema di remunerazione basato sui risultati è un obiettivo perseguibile? E´ possibile responsabilizzare le professioni circa la definizione degli standard di qualità  dei servizi?

Partecipano:
Prof. Eolo Parodi Presidente nazionale ENPAM - Ente nazionale previdenza e assistenza dei medici.
Dr. Luca Munari, Direttore sanitario Ospedale Riguarda di Milano, Associazione Medicina a Persona.
Dr. Salvatore Albanese, Presidente nazionale Associazione Cilla.
Dr.ssa Donatella Croato, Centro medico di Foniatria di Padova.
Dott. Adriano Cestrone, Direttore generale Azienda Ospedaliera di Padova.

Modera l'incontro il Prof. Giampiero Giron, Ordinario di Anestesia e rianimazione, Università  di Padova, e Presidente Onorario Compagnia delle Opere Nordest.

 

 

 

 

Gli appuntamenti al Pedrocchi

Gli appuntamenti al Pedrocchi

Gli appuntamenti al Pedrocchi




Tutte le poesie di Vittorio Zambon

a cura di Giogio Ronconi
presenta Silvio Ramat

Cantore della terra veneta, Vittorio Zambon colpisce per la semplicità  del linguaggio, il decoro formale, la capacità  di suscitare emozioni di autentica poesia. Interresante anche la sua ultima esperienza rappresentata dalle Satire, componimenti dai toni vigorosi ed ironici, ma sempre garbatamente controllati, che invitano a riflettere sull'uomo e la società , sugli errori e le angosce del nostro tempo, con distacco e disincanto, non privo di amara rassegnazione.

L'attore Aberto Terrani darà  lettura di alcune poesie tratte dal volume assieme ai suoi allievi dell'Academia "Palcoscenico" Serena Iannizzotto e Giacomo Rossetto.

Martedì 24 maggio alle ore 18:00, Sala Rossini, Caffè Pedrocchi

Il libro riproduce, riunite insieme, le quattro precedenti edizioni delle sue poesie (apparse nel 1952, 1954, 1957 e 1965) e inoltre la raccolta Satire, edita postuma nel 1981.

Il poeta fu anche uno dei promotori del Premio Monselice per la traduzione letteraria, che ancor oggi lo ricorda intitolando al suo nome una sezione del Premio , riservata alle traduzioni poetiche degli studenti delle scuole superiori di Padova e Provincia.

Biografia

Vittorio Zambon (Villafranca padovana 1910 - Padova 1974) è stato uno dei protagonisti della vita culturale padovana dell'immediato dopoguerra agli anni settanta. Laureato in Lettere, ha insegnato Italiano e Storia in varie scuole cittadine e negli ultimi 15 anni all'Istituto Belzoni. Sono numerosi i suoi saggi e interventi critici, specie riguardanti la poesia, tra cui il volume dedicato al suo "maestro" Diego Valeri.

Spazialismo: ricerche e protagonisti

Spazialismo: ricerche e protagonisti

Spazialismo: ricerche e protagonisti

Quattro critici e studiosi d'arte in un incontro organizzato nell'ambito della mostra "Gino Morandis. Incanti della materia".


Giovedì 17 febbraio ore 17:30
Palazzo del Monte di Pietà  - piazza Duomo, Padova

Interverranno:


Virginia Baradel
Lo Spazialismo naturalista di Tancredi

Guido Bartorelli
Il "concetto spaziale" di Lucio Fontana e la sua continuità  nell'arte delle neo-avanguardie

Giovanni Bianchi
La ricerca dello spazio-luce nella pittura di Mario Deluigi

Alessia Castellani
Gino Morandis e lo spazio come sistema dialettico


Ingresso libero.

Biografia di Giovanni Boldini

Biografia di Giovanni Boldini

Biografia di Giovanni Boldini

La mostra evento di Palazzo Zabarella offre un'aggiornata panoramica della produzione artistica di Giovanni Boldini, pittore che ha saputo cogliere e formalizzare la sensibilità  del suo tempo nell'orgogliosa consapevolezza del proprio mestiere. Artista determinato e ambizioso che ha costruito e speso la propria immagine divenendo non il cortigiano ma il genio della società  che interpreta.

Una scheda biografica per presentare questo importante artista.





Attenzione: alcuni link rimandano a siti in inglese

Giovanni Boldini , nato a Ferrara nel 1842, inizia a dipingere sotto l'egida del padre Antonio, anch'egli pittore, studiando i grandi maestri del Rinascimento ferrarese (Francesco del Cossa, Cosmè Tura, Ercole de' Roberti).

Lasciata la città  natale, nel 1864 approda a Firenze dove entra in contatto con il gruppo dei Macchiaioli, il cui impegno politico nella lotta per l'unità  d'Italia, lo stile di vita bohemienne, le scelte artistiche e tematiche non verranno tuttavia abbracciate da Boldini, attratto dalla società  bene dei salotti alla moda in cui viene introdotto dagli amici Cristiano Banti, suo mecenate per molti anni, e il pittore macchiaiolo Telemaco Signorini. Grazie a loro il giovane ferrarese conoscerà  personalità  illuminate come Isabella Falconer che nel 1867 lo condurrà  con sé a Parigi.

Per Boldini è una folgorazione. Immediato risulta ai suoi occhi lo scarto tra la provinciale Firenze, che lascia nel 1871, e l'internazionale capitale francese, teatro di una vita culturale e sociale sempre in fermento, città  frizzante ove era
possibile, frequentando gli ambienti giusti, raggiungere quella celebrità  e agiatezza di mezzi sempre cercate dall'artista. Dopo un breve soggiorno londinese, durato solo pochi mesi, egli risiederà  stabilmente a Parigi, fatta eccezione per alcuni viaggi di studio, come quello in Olanda nel 1876 per ammirare la pittura di Frans Hals, o a Madrid nel 1889 per incontrare l'arte di Diego Velà zquez, e i puntuali soggiorni a Venezia, città  simbolo del gusto decadente.

Fino al 1877 Boldini sceglie di seguire gli umori del mercato cimentandosi in una produzione di lezioso soggetto settecentesco sulla scia della riscoperta del XVIII secolo operata in quegli anni dai fratelli Goncourt, coltivando parallelamente il gusto per una pittura en plein air che fissa sulla tela i magnifici cieli primaverili di Francia ("La Grande Rue Í  Combes-laVille", 1873) o istantanee della frenetica vita parigina ("Place Clichy", 1874).

L'esempio della veloce pennellata di Frans Hals, dell'ingegnosa impostazione delle tele di Velà zquez, della monumentalità  dell'opera di Tiepolo, determinano una svolta nella pittura di Giovanni Boldini che, oramai artista di fama, negli anni
Ottanta lascia i tocchi minuti e brillanti dei quadretti rococò per una pennellata più ampia che definisce il soggetto con una capacità  di sintesi che non tralascia il dettaglio.

Nel tentativo di fissare l'istante, di cogliere l'anima dei soggetti che ritrae, Boldini sperimenta anche l'uso di tecniche pittoriche, messe a punto in quegli anni, come il pastello, con il quale realizza il "Ritratto di Giuseppe Verdi in cilindro"(1886) che diventerà  l'immagine simbolo del celebre compositore.

Sono di questi anni anche i ritratti di grandi dimensioni realizzati a pastello ("Il pastello bianco", 1888) e a olio ("Ritratto di Madame Veil-Picard", 1897), che ritraggono le più illustri e talora controverse icone femminili dell'epoca, fissate in pose che ne esaltano la grazia e il carisma.

Con i primi anni del Novecento infine l'attenzione alla resa del dettaglio fisiognomico e del ruolo sociale del ritrattato divengono sempre più marginali per Boldini. Il soggetto diviene incarnazione di un ideale estetico come nel "Ritratto della marchesa Casati con penne di pavone" (1911-1913) in cui la nobildonna, anima di uno dei salotti più ambiti di Venezia, proiettata in uno spazio indistinto, ornata con penne di pavone in riferimento alla sua leggendaria vanità , diviene trasfigurazione simbolica della sensualità  decadente vagheggiata in quegli anni da Gabriele D'Annunzio.

a cura di Sara Madalosso

Presenze. Il Centro d'Arte

Presenze. Il Centro d'Arte

Presenze. Il Centro d'Arte

"Presenze", la nuova rubrica di PadovaCultura, nasce per far conoscere le numerose, e diversissime tra loro, realtà  associative del territorio padovano: gruppi e associazioni culturali come luoghi di diffusione, e spesso anche di produzione, di cultura.

Questa settimana conosciamo il Centro d'Arte, con cui parliamo di musica jazz e del contesto musicale cittadino.

L'offerta musicale di Padova è ampia e di qualità , anche grazie ad associazioni che hanno una tradizione lunga e consolidata nel campo dell'organizzazione di concerti e di rassegne e che nello stesso tempo hanno saputo mantenere la loro vitalità  e la loro curiosità , nonostante i cambiamenti che sono intervenuti nella scena culturale, nei gusti del pubblico e anche nei finanziamenti sempre più scarsi. Questa settimana facciamo conoscenza con il Centro d'Arte degli Studenti dell'Università  di Padova e ne parliamo con Stefano Merighi, direttore artistico, insegnante e giornalista.

Il Centro d"€™Arte è nato nel 1945: sessant"€™anni fa. Cominciamo dall'€™inizio...

La storia del Centro d"€™Arte risale all'€™immediato dopoguerra. Ma se si vuole parlare dell'€™attività  che si è stabilizzata negli anni, si può dire che il Centro d"€™Arte è conosciuto in Italia e all'€™estero per la rassegna internazionale del jazz, che comincia all'€™inizio degli anni Settanta. Allora in Italia non era usuale organizzare una rassegna di musica contemporanea e di jazz che non si fermasse alla tradizione ma considerasse anche il free e le nuove esperienze, invitando artisti americani che venivano appositamente a Padova per suonare. La rassegna si è svolta al teatro Pio X dal 1973 al 1977, quando è esploso il pubblico che chiedeva proprio quel tipo di manifestazioni. Dal 1977 al 1979 c"€™è stato un periodo molto interessante ed anche difficilmente spiegabile in retrospettiva, in cui si organizzavano dei concerti di musica estrema, di avanguardia, e c"€™erano migliaia di persone paganti: i concerti si facevano nei palasport oppure nel mitico tendone che era stato fatto al Foro Boario. Direi che il picco dell'€™attività  si può inquadrare dal "€˜75 all'€™80. Poi le cose sono cambiate: gli anni Ottanta sono stati degli anni di grande trasformazione, anche nei gusti del pubblico giovanile che si stava formando. Il pubblico precedente aveva smesso di frequentare queste manifestazioni, mentre il nuovo pubblico giovanile aveva altri orizzonti. Il Centro si è fermato per un periodo. In seguito ci sono stati due tentativi di festival estivo, alla fine degli anni Ottanta, e l"€™attività  è cominciata di nuovo regolarmente dal 1992. La rassegna oggi è costituita da una decina o dozzina di concerti per stagione. Ci sono stati dei cambiamenti nella direzione artistica e nel consiglio direttivo, ma ora siamo in una fase di stabilità .

E riguardo alla scelta degli artisti?

C"€™è una cosa da ricordare: negli anni Sessanta, prima che si formasse il gruppo direttivo che si è stabilizzato negli anni successivi, il Centro d"€™Arte era diretto da un critico molto noto, Franco Fayenz, che ha portato a Padova dei nomi storici. In quegli anni hanno suonato Thelonious Monk, Lennie Tristano, il Modern Jazz Quartet, Earl Hines: insomma dei capostipiti. Poi, anche per statuto del Centro, si è deciso di favorire le musiche di sperimentazione e di improvvisazione, da una parte di estrazione jazzistica, dall'€™altra di estrazione difficilimente etichettabile: musica minimalista, post-dodecafonica... Già  allora la Sala dei Giganti, che oggi è diventata la sede fissa, era molto usata. Negli anni Novanta, quando è cambiata la direzione e abbiamo ricominciato un"€™attività  stabile, le scelte artistiche sono diventate più coerenti. Fino a che le finanze ce l"€™hanno permesso abbiamo ospitato in egual misura grandi nomi ed artisti emergenti. Adesso, non avendo soldi, ci siamo concentrati a promuovere gli artisti che ci piacciono, siano essi europei, americani o italiani, privilegiando una certa espressività  slegata dal giro dei concerti del jazz, che è diventato un vero e proprio mercato. Adesso il jazz è una moda, una griffe che si applica a un prodotto. Quindi il Centro d"€™Arte non sceglie gli artisti di moda, anche se non li disdegna affatto: però spesso precede gli altri. Per esempio, nomi che riempiono i teatri e che tutti conoscono sono adesso Enrico Rava, Stefano Bollani, Paolo Fresu. Noi li abbiamo fatti vent"€™anni fa, dieci anni fa, cinque anni fa. E adesso non corriamo più dietro a loro, anche perchè loro hanno costi che non ci possiamo più permettere.

Qual è il contesto musicale di Padova?

Mi pare che quello musicale sia a Padova l"€™unico settore di cui non ci si possa lamentare. La stagione di musica classica è di altissimo livello; e poi, oltre a noi, c"€™è l"€™Interensamble che organizza il festival di musica elettronica e minimale. L"€™associazione Miles che organizza il festival del Verdi e i giovedì al Pedrocchi. Poi i club che fanno uno o due concerti a sera... è quasi troppo!
Il contesto musicale di Padova si è molto diversificato negli ultimi dieci anni. Sono nati nuovi soggetti, molto attivi, dinamici e appassionati, che hanno deciso di scegliere il jazz come ambito di azione. Mi riferisco appunto all'€™associazione Miles e al Festival del Verdi, e alla Gershwin, che hanno allestito cose molto interessanti sia dal punto di vista didattico che dal punto di vista concertistico, riuscendo a farsi sponsorizzare in maniera notevole e facendo una scelta di jazz tradizionale, con nomi importanti. Noi abbiamo preso atto di questo, non ci deve essere nessuna concorrenza: anzi, in questo modo la città  ha un"€™offerta musicale sempre più vasta. Ma abbiamo deciso di togliere la griffe: noi non facciamo più jazz o musica contemporanea: facciamo musica. E"€™ importante sottolineare questo, perchè è una dichiarazione onesta ma nello stesso tempo è una scelta penalizzante: è necessario che il pubblico riconosca esattamente il prodotto che deve comprare - perchè di questo si tratta - e per ottenere questo è necessario curarlo, allevarlo. E"€™ un processo che richiede molto tempo.

Come risponde il pubblico alle vostre iniziative?

Il pubblico non va più a una rassegna perchè si fida delle scelte fatte da chi cura la rassegna, come avveniva un tempo. Il pubblico sceglie il nome e sa esattamente cosa va a vedere. Per questo motivo abbiamo delle sorprese incredibili: a volte un sacco di gente viene per musicisti che noi riteniamo sconosciuti, e non per altre cose, in cui magari investiamo più soldi. Il rapporto con il pubblico non si può più prevedere, come invece accadeva in passato. Abbiamo però tentato di recuperare gli studenti universitari, con una promozione più attenta e facendo prezzi incredibili (uno studente paga 6 euro). I risultati sono discreti, anche se lo studente universitario oggi preferisce sicuramente passare la serata in club, a chiacchierare, bere ed ascoltare musica. E"€™ difficile che si affezioni come una volta al concerto come momento di scoperta.

E riguardo agli aspetti organizzativi, quali sono le difficoltà  maggiori che trovate?

Dal punto di vista organizzativo riusciamo quasi sempre a fare quello che vogliamo fare, anche grazie a contatti personali - qui lavoriamo in tre o quattro persone, in modo volontario, tranne la segretaria. Ma non possiamo più permetterci quello che molti spettatori vorrebbero vedere, anche perchè gli artisti da qualche anno in qua hanno triplicato i loro compensi. Senza motivo, a mio parere, perchè in questo modo si precludono molte date che potrebbero fare in più. Le difficoltà  quindi sono soprattutto di ordine economico. Per esempio, abbiamo un progetto per l"€™estate che probabilmente non riusciremo a realizzare perchè non ci sono finanziatori. La Provincia si dichiara disponibile a supportarlo, ma solo in termini di organizzazione e di promozione, non con un finanziamento.

Parliamo della rassegna di quest"€™anno...

La rassegna di quest"€™anno è in continuità  con quella dello scorso anno: il primo appuntamento è stato con Frederic Rzewski, un pianista di musica classica e improvvisata. Poi c"€™è stata Annette Peacock, che non veniva in Italia da decenni. Un trio che lavora a Vienna, Trapist, suonerà  in esclusiva italiana. Seguirà  il jazz vero, riconoscibile, rappresentato da nomi che sono molto noti a New York, ma che non vanno sul mercato della musica: Matthew Shipp, Ben Allison, William Parker e Leo Smith. Infine David Krakauer e il suo Klezmer Madness. Dunque abbiamo puntato su artisti affermati ma non molto conosciuti, che in modo piuttosto equilibrato offrono una testimonianza della scena nera americana, della scena europea e - mi riferisco in particolare a Krakauer e al Klezmer - del rapporto tra la musica popolare e la musica improvvisata. Gli artisti che scegliamo sono quasi sempre stranieri. Infatti come ho detto prima l"€™altro soggetto organizzativo dà  già  molto spazio ad artisti italiani, e poi noi abbiamo i finanziamenti per fare un certo numero di concerti all'€™anno, che sono pochi. Se potessimo farne di più daremmo maggiore spazio anche alla musica italiana.
Da qualche anno collaboriamo anche a Impara l"€™arte, un progetto per gli studenti organizzato dall'€™Università , che ha affidato a noi, all'€™Orchestra da Camera del Veneto e agli Amici della Musica la direzione artistica. Ciascuna delle tre associazioni sceglie quattro appuntamenti all'€™anno. Abbiamo portato cose di alto livello: per esempio Stefano Benni con un pianista, sul tema jazz e letteratura, poi musicisti persiani; prossimamente verrà  anche David Krakauer - che è anche in rassegna - a parlare del Klezmer.

Laura Lazzarin

Incontro con l'artista

Incontro con l'artista

Franco Trevisan sarà  presente in sala espositiva per raccontare il suo percorso artistico, le sue esperienze, le sue motivazioni.

Venerdì 4 febbraio 2005 alle ore 17:00
Sala Samonà  della Banca d’Italia – Via Roma – Padova

Per partecipare all’INCONTRO CON L’ARTISTA rivolgersi al Settore Attività  Culturali, via Porciglia 35 – Padova

Per informazioni
tel. 049 8204523
e-mail mazzucatos@comune.padova.it

Fermenti culturali. Intervista a Filippo Tognazzo

Fermenti culturali. Intervista a Filippo Tognazzo


La contaminazione artistica è il filo conduttore dell'intervista di questa settimana. Ce ne parla l'attore Filippo Tognazzo, ideatore di Tozu, ditta-gruppo che riunisce personalità  artistiche differenti, e che ha realizzato con l'associazione Experimenta "Le Affinità  elettive", spettacolo che unisce diversi linguaggi espressivi: racconto, musica, video, immagini. Un ottimo esempio di collaborazione tra giovani artisti.



Chi è
Intervista




Chi è



Filippo Tognazzo nasce a Padova nel 1976. Si laurea al DAMS di Bologna con una tesi in strutture della figurazione dal titolo I M.U.D.: fra gioco e crisi dell'€™identità . Ha seguito diversi laboratori e stage di commedia dell'arte, recitazione, narrazione. Lavora come attore e formatore. Nel 2001 crea Tozu, con la quale realizza diversi progetti in ambito teatrale. Nell'ambito del Carnevale di Venezia 2005 Filippo Tognazzo va in scena al Teatro Piccolo Arsenale con Arlecchino Bohémien della compagnia Pantakin da Venezia.

In collaborazione con Experimenta, un'associazione di giovani musicisti di Limena, realizza lo spettacolo "Le affinità  elettive", che di recente si è potuto vedere a Padova. "Le affinità  elettive" nasce come un progetto di creazione collettiva, di confronto non solo artistico, ma personale fra diverse attitudini e sistemi di relazione con il mondo. Ognuno degli artisti coinvolti offre una propria personale interpretazione del romanzo di Goethe, usando un linguaggio che gli è proprio. Il risultato è uno spettacolo emozionante.



Il gruppo di artisti che hanno lavorato a Le affinità  elettive è formato da:

Andrea Fabris: voce, chitarra
Andrea Signori: chitarra ritmica
Filippo Ferrari: percussioni, batteria
Roberto Marcon: basso acustico, voce
Filippo Tognazzo: racconto
Marco Zuin: videoproiezioni
Tecnico del suono: Alessio Ometto, Mirko Visentin

LA TRAMA: L"€™amore coniugale fra Edoardo e Carlotta viene sconvolto dall'€™arrivo del Capitano, amico di Edoardo e di Ottilia, nipote di Carlotta. Il nuovo equilibrio viene turbato dalla nascita del figlio di Carlotta e di Edoardo e dallo scoppio della guerra. Sopravvissuto al conflitto, Edoardo ritorna per sposare Ottilia; ma durante la traversata di un lago la giovane cade in acqua assieme al bimbo di Carlotta, che annega. Per espiare la sua colpa, Ottilia si lascia morire d"€™inedia. Edoardo poco dopo muore consumato dall'€™amore.

NOTE DI REGIA
Nelle Affinità  Elettive racconto, musica e immagini si alternano e si mescolano offrendo una lettura del romanzo al tempo stesso poetica, emotiva e intellettuale. Lo stesso Goethe sembra voler stabilire una connessione fra le relazioni personali, regolate dai sentimenti, e le affinità  chimiche che regolano l"€™universo. Perciò parole, suoni e immagini si contaminano e si sovrappongono, cercando affinità  reciproche e prendendo coscienza delle differenze.

Il prossimo progetto comune del gruppo è uno spettacolo sulla storia dei minatori di Marcinelle fino al tragico incidente dell'€™8 agosto del "€™56.


Intervista



Tozu
Fare teatro a Padova
Le affinità  elettive
Musi Neri
Commedia dell'arte e teatro di narrazione


Mi parli di Tozu? E' un'associazione, un progetto, un gruppo?

La Tozu in realtà  non è un'associazione, ma una ditta individuale. Ho cominciato circa tre anni fa. Fatti gli studi mi sono reso conto che avevo bisogno di un bagaglio tecnico, pratico. Mi sono messo a fare un po' di formazione. Nei vari incontri ho conosciuto una serie di ragazzi di Padova con i quali è nata una collaborazione. Loro erano più giovani di me, facevano ancora l'università , sai non sapevano ancora bene cosa volevano fare... io invece ho detto "io intanto comincio, provo" e ho fatto questa ditta individuale. L'ho chiamata Tozu. Il nome viene da Tognazzo-Zuin che era un mio collaboratore del tempo, anche attuale in realtà , solo che adesso lui lavora sul video e io più sul teatro. L'idea qual era? io faccio da capocordata, propongo dei progetti e poi di volta in volta si crea un équipe che risponda al meglio a quello che può essere il progetto. Ad esempio per l'Ubu Re, che è un progetto piuttosto ampio, sono io che lo coordino. E' un progetto di circa 110 ore di formazione. Io ne faccio circa la metà , poi c'è un insegnante di danza che è Sandra Zabeo, che fa un lavoro a terra sul movimento; Sara Celeghin, che frequenta la Scuola di Circo Teatro di Bologna, fa la parte di acrobatica e giocoleria; Giorgio Sangati, che si sta diplomando al Piccolo di Milano, fa una parte sulla pantomima, movimento espressivo (più drammatizzato rispetto a Sandra, che fa una parte più libera); Alberto Ferraro, che studia a Roma, fa un lavoro sulla voce, canto popolare, respirazione. Mettiamo insieme competenze diverse anche per dare un approccio piacevole agli allievi. In questo caso l'équipe formata è questa, per altri progetti, tipo quello con le scuole, lavoro sempre con Sara, con Antonio, un ragazzo del
Conservatorio di Venezia che fa un lavoro su musica e ritmo, e poi dipende. E' struttura mobile, ma ci piaceva l'idea di riconoscerci sotto un nome ben identificabile. Anche per ragioni di mercato, per essere ben identificabili.
Siamo tutti giovani, ma con percorsi solidi alle spalle. Abbiamo la volontà  di lavorare sul territorio, con un occhio di riguardo alla qualità , l'argomentazione, lo studio di quello che proponi. Oggi per esempio è il giorno della memoria. A volte
per celebrare si fanno tanti spettacoli un po' tirati via...
La speranza grande è quella di creare una vicinanza tra il pubblico di Padova e il teatro, anche quello giovane. Anche con i laboratori, cerchiamo sempre di andare fuori. Tre mesi prima della fine cominciamo già  a fare le uscite, perchè comunque lo spettacolo si costruisce con il pubblico, c'è un contatto. Non importa se non porti lo spettacolo completo, lo dici prima "non è uno spettacolo completo, abbiamo dei pezzi, lo stiamo valutando". Solo così si crea un dialogo, sennò è come se la gente guardasse la televisione, sì no, cambio canale...invece così si sente partecipe di un momento creativo. Questo è importante.
Poi la speranza è che man mano si riesca a creare anche un movimento economico, che si riesca ad avere un minimo di finanziamenti, un minimo di respiro, perchè sennò l'unica alternativa è andare via. Fusetti della Kiklos ha chiuso la scuola e deve andare via, perchè è diventato difficile gestire una scuola a Padova. Può piacere o no, ma se ne sente la mancanza perchè comunque Kiklos aveva segnato un innesto di qualità  a Padova, era qualcosa di più internazionale. Ci sono le personalità  a Padova, ma lavorano tutte fuori. E per una città  come Padova, che comunque è una città  di cultura, è una città 
che ha studenti, una città  che ha un passato, perdere la cultura, la vitalità  dei suoi cittadini significa perdere la propria identità , perdere un senso che invece deve avere.



E' così difficile la situazione per un giovane che vuole fare teatro a Padova?

Il problema di Padova secondo me è che per i ragazzi giovani e per chi vuole fare teatro professionalmente manca la continuità  di lavorare, di fare esclusivamente quello. Non c'è la possibilità  di farlo come attore non c'è la continuità  lavorativa per dire "ho un tot d'entrata mensile per cui riesco a pagarmi l'affitto ". Chiaramente devi trovare altre strategie, una è la formazione, si lavora tanto con le animazioni, si lavora con i piccoli spettacoli, ci sono varie cooperative magari di teatro ragazzi. Il teatro ragazzi sopravvive come realtà , ti permette di fare delle produzioni, di avere comunque un pubblico, puoi venderlo alle scuole, alle piazze, alle manifestazioni, quindi diventa un po' più semplice.
Però francamente lavorando all'interno di un ambiente più professionalizzato se vuoi ti accorgi che c'è un salto qualitativo importante. Perciò se tu decidi di fare l'attore a Padova è davvero difficile se non riesci ad entrare in uno di quei
percorsi, di quelle reti che sono già  presenti.

Ad esempio?

So che Abracalam lavora abbastanza bene, ha una serie di contatti nel territorio. Lì c'è Caruso, e c'era anche Beppe Casales, ma adesso so che Casales ha creato "Via" quindi comunque si è scorporato. Qualcosa a Padova effettivamente si sta muovendo. Anche dal TPR se n'è andato Andrea Pennacchi, è andato a Piove di Sacco, ha aperto anche in quella direzione una strada. C'è Bel Teatro che comunque fa una produzione e lavora con continuità . Però anche lì hanno degli attori che ogni tanto entrano, ma un attore non è che può stare semplicemente a Bel Teatro a lavorare. Quelli dello Stabile francamente non so quanto riescono a lavorare, come siano composti, se ci sono attori padovani o meno, questo non te lo so dire... Tutte le altre associazioni e piccoli gruppi hanno le loro dinamiche interne, chiaramente mantengono quelli che stanno dentro e hanno difficoltà  a poter pagare qualcuno che venga da fuori o a prendere altra gente. Questo ti obbliga ad andare fuori. Io sono stato fortunato perchè avendo fatto un percorso sulla commedia dell'arte avevo una strada preferenziale. Mi sono iscritto a Venezia alla Pantakin, e lì ti danno una disponibilità  di lavoro abbastanza buona. Tieni presente che il lavoro teatrale è un lavoro lento. Hai la necessità  di fermarti, lavorare, continuare...lo puoi fare se hai una struttura che ti permette di farlo. Allo stato attuale è difficile: gli spettacoli li vendi difficilmente perchè la disponibilità  economica è quella che è, teatri a Padova al di là  del Verdi, che ha un suo percorso, ci sono Antonianum e Piccolo, ma anche questi vanno su un livello abbastanza alto, perchè chiaramente vogliono avere garanzie i teatri. Già  c'è poca gente che va a teatro, se non in più non garantisci delle entrate diventa estremamente difficile. Per questo una realtà  come i Carichi Sospesi è estremamente importante, perchè comunque ti permette di prendere visione di alcune realtà , sia teatrali sia musicali, che stanno emergendo, sai che ci sono... Anche la corsistica è importante: crea attraverso la formazione un pubblico, crea sensibilità ... è quello che ti permette di creare un movimento attorno per cui poi ti permette di far emergere se ci sono delle personalità , anche piccole, che possono spiccare. Però per il resto non hai altre piazze, è difficilissimo. I comuni non ti comprano gli spettacoli, anche se magari costano poco, perchè non ti fanno pubblico. Comprano preferibilmente spettacoli dialettali, Capovilla, cose così...giustamente dal loro punto di vista, investono tot e incassano quello che hanno
investito. Se vogliamo fare uno spettacolo come Le Affinità  Elettive arriviamo anche a fare le 100- 150 persone, che non è male per noi, ma in un'ottica di investimento, di ritorno, è poco. Quindi la situazione in questo senso è piuttosto difficile. Fortunatamente Progetto Giovani ci ha dato una mano. Stiamo facendo un laboratorio sull'Ubu Re con l'ASU e ci ha dato la disponibilità  della sala, ci darà  forse la disponibilità  di uscire nelle piazze con il patrocinio loro o all'interno di loro manifestazioni. Questo ti permette di avere visibilità , avere visibilità  vuol dire che la gente ti vede, vuol dire già  valorizzare il tuo lavoro. La parte produttiva, la parte creativa dev'essere quella che tiene, mentre adesso nel mio caso è la formazione che supporta tutto, perchè è quella che ti permette nell'arco di un anno di avere delle entrate, di guadagnare per poi investire nelle produzioni. Direi che c'è un salto rispetto ad altre regioni, come l'Emilia, l'Umbria...


Parliamo dello spettacolo "Le affinità  elettive". Mi racconti com'è nato?

Tutto è nato da Andrea Fabris, il cantante autore delle musiche. Ha letto Le affinità  elettive e ha cominciato un suo ragionamento. "Le affinità  elettive" ragiona in termini un po' chimici-scientifici sulle relazioni personali. E' un po' un
gioco se vuoi, un'interpretazione che fa Goethe. Andrea l'ha letto e da lì è partita tutta una considerazione sulla contaminazione, la contaminazione tollerante come la chiama lui: quando realtà  diverse si incontrano possono o allontanarsi,
scindersi, oppure cercare una sorta di compromesso. Questa è un po' una sua libera interpretazione del romanzo. Ha scritto le canzoni, le abbiamo ascoltate, a me piacevano. Mi ha detto "io vorrei costruire uno spettacolo in cui ci sia una parte teatrale, di racconto, e una parte video". Quindi non siamo partiti tutti assieme, c'erano già  delle canzoni pronte su cui inserire altre due cose ex novo. All'inizio, almeno i primi nove mesi di lavoro, sono stati un po' un brancolare nel buio. Poi abbiamo cominciato a improvvisare, così come se fosse una jam session, ovvero io ho cominciato a raccontare e su piccole intuizioni ritmiche mie, piccole intuizioni ritmiche dei ragazzi, abbiamo cominciato a costruire qualcosa. Da lì abbiamo individuato i sei pezzi che compongono la struttura dello spettacolo. Abbiamo poi cercato di fare un lavoro di commistione fra musica e racconto in modo che riuscissero a sostenersi l'uno con l'altro. I video hanno preso un'altra strada ancora. Li ha realizzati Marco. Li abbiamo rifatti parecchie volte prima di arrivare agli ultimi. I disegni facevano parte di un lavoro ancora precedente, risale ancora agli anni di Bologna, che era un Adam Kadmon, un fumetto che stavamo scrivendo a Bologna sul personaggio di un androide che nasceva con una mancanza e andava in cerca, era una storia d'amore... abbiamo recuperato quel materiale e l'abbiamo sistemato.

Pregi e difetti dello spettacolo?

Il pregio principale penso sia quello di essere riusciti a lavorare assieme. Tra l'altro noi per esigenze pratiche abbiamo lavorato su un piano davvero paritario.


Perchè?

Beh, intanto mancava una regia. Ognuno nel suo ambito, io per il racconto, Marco per i video e gli altri ragazzi per l'arrangiamento musicale, ha mantenuto la propria autonomia. Lavoriamo insieme da due anni e non ci siamo scornati, quindi già  questo è un risultato, anche perchè era la prima esperienza insieme. Difetti... Proprio per come è nato il progetto, lo spettacolo presenta delle difficoltà  per chi non ha letto il libro. Ti dà  sei frammenti di una storia che difficilmente riesci a ricomporre, tant'è che il piccolo riassunto che facciamo all'inizio serve solo per capire l'abc della storia.
Nel romanzo la storia è molto più articolata. L'idea però, quella iniziale, era di fare uno spettacolo che avesse un linguaggio musicale che per i ragazzi giovani è più facilmente fruibile. La gente va volentieri al pub a sentirsi il gruppo,
più difficilmente va a teatro. Allora abbiamo detto: proviamo a trovare una formula per la quale noi possiamo andare in un locale in cui la gente si aspetta della musica e invece in qualche modo infiliamo qualcosina di teatrale, in modo che la gente magari possa dire "ho visto questa cosa un po' particolare, magari vado a vedermi anche uno spettacolo". Il linguaggio musicale è qualcosa che per i ragazzi diventa più facilmente comprensibile, anche emotivamente, per cui abbiamo fatto questo tentativo.


Il pubblico come risponde?

C'è un impatto emotivo abbastanza forte, dovuto anche all'incipit dello spettacolo. Il primo pezzo colpisce duro, quindi c'è una sorta di emotività , di energia che bene o male ti arriva. Sei abituato magari a forme teatrali più dimesse, quindi certe cose ti passano. Di solito a chi ha letto il libro piace. Certo, tante cose sono condensate, ma trovano che il respiro è quello giusto. Le critiche quali sono...mah, qualcuno ci dice "non ho capito, non mi è chiaro...", lì stiamo cercando di ovviare con il riassunto iniziale, l'inserimento degli oggetti. Questa è la critica più giusta che ci arriva, ma purtroppo non è che lo spettacolo si può riprendere in mano del tutto.


State lavorando a un nuovo spettacolo, di cosa parlerà ?

"Musi neri" ha un taglio completamente diverso. Sempre struttura musica e racconto, ma io sto cercando di spingerla più sulla parte teatrale, con dei personaggi, degli elementi in scena in più, e ci sarà  proprio una storia. Anche i pezzi cantati da Andrea faranno parte della storia. Partiamo da un libro che ha procurato Andrea sullo scoppio della miniera di Marcinelle nel 1956. Non vogliamo fare un lavoro d'inchiesta, anche perchè non siamo in grado di raccogliere tutte le informazioni.

Quindi vi basate solo su fonti scritte, non su testimonianze orali?

Sì, su fonti scritte. Racconti, lettere, ricostruzioni. E' la storia -questo è quello che ci piaceva- dei nostri nonni, dei nostri parenti, che sono partiti con una speranza, che era quella di cambiare la qualità  della vita, non loro ma dei loro
figli e dei loro nipoti. Si sono trovati anche a morire nella miniera, ma con questa idea di "lo faccio per permetterti di avere qualcosa di meglio di quello che ho avuto io". Questo ci piaceva, comunque è un segnale positivo, e ciò ci permette di raccontare la tragedia senza dare solamente il taglio tragico, ma anche la semplicità  di queste persone. Erano contadini, persone tranquille, che si sono trovate ad andare lì...loro pensavano di andare in un posto tutelati, con contratti di lavoro regolari, si sono trovati invece a lavorare in condizioni estremamente disagiate, dormivano in un ex campo di sterminio, non
conoscevano la lingua... Pare addirittura che l'incidente sia da imputare proprio ad una incomprensione dovuta alla lingua. Ci interessava parlare di questo. La storia sarà  quella di un ragazzo che parte, all'inizio è lui che arringa la
gente del paese, dice "dai partiamo, forza, c'è la possibilità  in Belgio di uscire dalla miseria". Parte, lascia la famiglia, un po'ha nostalgia perchè da buon veneto è legato al suo Brenta, alle sue cose. Arriva su, all'inzio gli sembra tutto un po' strano ma dice "vabbè, se c'è da lavorare lavoriamo". Viene fatto scendere in questa miniera e lì c'è il pezzo della città  sotterranea nella quale c'è qualcosa che è già  futuristico, qualcosa che pompa, polmone futuro dell'Europa mineraria, qualcosa che tira fuori... prima era carbone, adesso è petrolio. però è questo: tiriamo fuori, tiriamo fuori. Cominciano a lavorare, il lavoro si presenta difficile, lui è indeciso "torno, non torno", alla fine decide di rimanere, conosce altri personaggi che lavorano lì. Alla fine succede la tragedia e rimane chiuso sotto. Lì finisce la storia, ma la fine dello spettacolo è già  con l'idea di questa passione per il lavoro per andare più in là . E' un po' un dire... beh, noi abbiamo
quasi trent'anni, se ci guardiamo indietro diciamo "siamo qui perchè prima qualcuno ha costruito qualcosa". E' un po' un recuperarsi una propria nostra memoria.

Anche in questo spettacolo sarai l'unico narratore in scena?

Sì, questo per esigenze tecniche in realtà .

A che punto siete del lavoro?

Adesso siamo fermi da un mese perchè io lavoro a Venezia. Ci siamo dati il primo maggio come prima uscita. A febbraio ricominciamo le prove e da marzo prendiamo i primi contatti.Al solito come Le Affinità  Elettive lo facciamo come volontari, cioè perchè ci piace farlo, nella speranza comunque di portarlo fuori. Con questi progetti infatti la cosa che ci interessa di più è uscire. Abbiamo fatto lo spettacolo, vogliamo confrontarci con la gente, portarlo fuori perchè la gente lo veda.

Come entra il video nei vostri spettacoli?

Beh, in "Le affinità  elettive" non c'è un vero dialogo, il video è qualcosa che si mette sopra come un cappello rispetto al resto. Nel prossimo spettacolo stiamo lavorando perchè entri in dialogo, il video interagisce con la scena, la racconta e la descrive.


Nelle tue esperienze di formazione hai studiato sia commedia dell'arte sia teatro di narrazione. Vorrei una tua opinione su queste due forme di teatro così diverse.

La commedia dell'arte a me piace tantissimo perchè è un gioco. E' un gioco codificato ed è un gioco per certi versi semplice. A me piace. Con Pantakin abbiamo costruito uno spettacolo che funziona bene, è divertente, in dieci giorni. Tu metti insieme quattro attori che hanno voglia di giocare assieme e costruisci uno spettacolo. Con emotività , con tragedia, con risata, con tutto, però è una forma semplice. E' spontanea, è fresca. Arriva alla gente. E' tutto abbastanza semplice, è palese, è un gioco, finalmente ti puoi gustare qualcosa magari anche leggero però fatto bene e in cui ti puoi riconoscere, questo a me piace tantissimo. E poi a me piace il lavoro con la maschera perchè ti investe tantissimo, ti obbliga a un lavoro fisico fortissimo. E' anche un lavoro altruistico, nella commedia dell'arte io lavoro per te tu lavori per me, per questo secondo me è una base propedeutica davvero fondamentale.
Il racconto è anche questa una cosa estremamente popolare. La cosa bella del racconto secondo me è che lo puoi fare dovunque.

Arianna Pellegrini

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